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PENA DI MORTE, STORIA DELLA LEGISLAZIONE IN ITALIA

19 settembre 2021:

Pasquale Hamel su Il Riformista del 17 settembre 2021

La legislazione italiana sulla pena di morte costituisce – nel periodo a cavallo fra l’ultimo quarto del XIX e la prima metà del XX secolo – un autentico e ininterrotto laboratorio politico che, a dispetto della profonda arretratezza del Paese, lo ha collocato all’avanguardia rispetto alle grandi democrazie europee.
L’unificazione dello Stato, culminata con la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, fin dall’inizio pose alla nuova entità istituzionale tutta una serie di problemi, in gran parte di difficile soluzione e, fra questi, l’avvertita necessità di darsi una legislazione unitaria per l’intero territorio. Non è, infatti, un caso che un illustre giurista – Vincenzo Miglietti guardasigilli del governo guidato da Benedetto Ricasoli del 1861 – avesse più volte affermato che “le libertà non allignano nel tronco del disordine: l’unità nazionale si cementa e si consolida con l’unità delle leggi”.
Ma l’unificazione della legislazione si presentava come operazione ardua e densa di rischi, anche perché comportava la difficile operazione di comporre anche quello che, all’apparenza, era incomponibile. Un caso eclatante, in questo senso, riguardava proprio il tema della pena capitale che, dopo la buriana napoleonica, era stata reintrodotta o confermata, con modulazioni diverse – in Piemonte, ad esempio, la legislazione del 1857 ne aveva fortemente limitato i casi in cui era considerata applicabile – in quasi tutti gli ex stati preunitari, con la felice eccezione del Granducato di Toscana, dove era stata abolita il 30 aprile del 1859 richiamando la riforma del 1786, voluta da un principe illuminato come lo fu il granduca Pietro Leopoldo.
Il mantenimento o meno della pena di morte fu quindi al centro di un vasto dibattito animato, soprattutto, da giuristi come Pietro Ellero, Francesco Carrara, promotori del “Giornale per l’abolizione della pena di morte” e Pasquale Stanislao Mancini che ne chiedevano, senza tuttavia successo, l’abolizione. La decisione finale fu dunque di confermare nell’ordinamento del nuovo Stato la pena di morte ma, con una decisione salomonica, come scrive il giurista Giovanni Tessitore che all’argomento ha dedicato uno dei suoi studi più importanti, si fece della Toscana un’isola giuridica privilegiata al cui interno, a differenza che nel resto d’Italia, la pena capitale, continuò a non essere prevista.
Ma proprio l’anomalia Toscana sarà il tallone d’Achille dei fautori della abolizione della pena capitale. Gli abolizionisti ne faranno infatti un esempio affermando che, dati alla mano, in Toscana l’assenza di tale strumento repressivo piuttosto che incentivare i reati li aveva addirittura ridotti. Negli anni che seguirono, le condanne alla pena capitale comminate dai tribunali del Regno ammontarono a 392 ma quest’altissimo numero venne ridimensionato dai provvedimenti di clemenza sovrana che interessarono 351 casi, per cui il totale delle esecuzioni si ridusse, alla fine, a sole 41.
Naturalmente la scelta operata dopo il 1861 non riuscì a spegnere il vivace dibattito che continuò ad essere animato dagli abolizionisti e che vide, sempre in prima fila, il già citato Pasquale Stanislao Mancini e un altro giurista e protagonista del Risorgimento come Giuseppe Pisanelli. I tempi erano tuttavia maturi per un ripensamento e un primo passo avanti in direzione dell’abolizione coincise – dopo la morte del padre della patria, così era stato consacrato alla storia re Vittorio Emanuele II – con l’ascesa al trono del di lui figlio, Umberto I. Nel 1876, venne infatti emanato un provvedimento di clemenza che riguardò ben 55 condannati a morte e, seppur in maniera tacita ad esso seguì una sorta di moratoria nella applicazione della pena di morte. Da quel momento, infatti, non vennero eseguite più condanne alla pena capitale anche se di espungere definitivamente dall’ordinamento detta pena non se ne parlò e questo perché in Parlamento era presente una consistente e bellicosa opposizione.

Fine prima puntata – continua

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