I FATTI PIU' IMPORTANTI DEL 2006 (e dei primi sette mesi del 2007)

03 Gennaio 2011 :


SINTESI DEL RAPPORTO 2007

La situazione ad oggi


L’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre dieci anni, si è confermata anche nel 2006 e nei primi sette mesi del 2007.
I paesi o i territori che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica sono oggi 146. Di questi, i paesi totalmente abolizionisti sono 93; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 9; 1 paese, la Russia, in quanto membro del Consiglio d’Europa è impegnato ad abolirla e, nel frattempo, attua una moratoria delle esecuzioni; quelli che hanno introdotto una moratoria delle esecuzioni sono 4; i paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono cioè sentenze capitali da oltre dieci anni, sono 39.
I paesi mantenitori della pena di morte sono 51, a fronte dei 54 del 2005 e dei 60 del 2004. La tendenza a un abbandono della pena di morte trova conferma anche nel fatto che diminuisce ogni anno non solo il numero dei paesi mantenitori, ma tra questi anche quello di coloro che la praticano effettivamente.
Nel 2006, è aumentato il numero di paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali: sono stati 27, a fronte dei 24 del 2005 e dei 26 del 2004.
Di conseguenza, è aumentato anche il numero delle esecuzioni nel mondo. Nel 2006 vi sono state almeno 5.628, a fronte delle almeno 5.494 del 2005 e delle 5.530 del 2004.
Ancora una volta, l’Asia si è confermata essere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. Se contiamo che in Cina vi sono state almeno 5.000 esecuzioni, il dato complessivo del 2006 corrisponde ad almeno 5.492 esecuzioni, in aumento rispetto al 2005 quando erano 5.413 e al 2004, quando erano state registrate almeno 5.450 esecuzioni.
Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Stati Uniti, l’unico paese del continente che ha compiuto esecuzioni nel 2006: 53 le persone giustiziate (erano state 60 nel 2005 e 59 nel 2004).
In Africa, nel 2006 sono state registrate almeno 80 esecuzioni, in aumento rispetto alle 19 del 2005 e alle 16 del 2004. La pena di morte è stata praticata in sei paesi: Botswana (1), Egitto (4), Guinea Equatoriale (1), Somalia (7), Sudan (65) e Uganda (2).
In Europa vi è una sola macchia che deturpa l’immagine di un continente altrimenti totalmente libero dalla pena di morte: la Bielorussia che nel 2006 ha effettuato 3 esecuzioni (erano state 4 nel 2005).

Cina, Iran e Pakistan i primi paesi boia del 2006

Dei 51 mantenitori della pena di morte, 40 sono paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. In questi paesi, nel 2006, sono state compiute almeno 5.564 esecuzioni, pari al 98,8% del totale mondiale. Un paese solo, la Cina, ne ha effettuate almeno 5.000, circa l’89% del totale mondiale; l’Iran ne ha effettuate almeno 215; il Pakistan 82; l’Iraq almeno 65; il Sudan almeno 65; l’Arabia Saudita 39; lo Yemen 30; il Vietnam almeno 14; il Kuwait almeno 11; la Somalia almeno 7; Singapore almeno 5; Egitto, Giordania, Malesia e Bangladesh almeno 4; Bahrein, Corea del Nord e Bielorussia almeno 3; Siria ed Uganda almeno 2, mentre almeno un’esecuzione è stata registrata negli Emirati Arabi Uniti e in Guinea Equatoriale.
Molti di questi paesi non forniscono statistiche ufficiali sulla pratica della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.
A ben vedere, in questi paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.
Sul terribile podio dei primi tre paesi che nel 2006 hanno compiuto più esecuzioni nel mondo figurano tre paesi autoritari: la Cina, l’Iran e il Pakistan.

Cina, primatista di esecuzioni (anche se in diminuzione)  La pena di morte continua ad essere considerata in Cina un segreto di stato ma negli ultimi anni hanno iniziato a trapelare alcune notizie ufficiose dagli ambienti accademici, parlamentari e giudiziari che rendono attendibile il dato di circa 8.000 esecuzioni ogni anno.
Il 27 febbraio 2006, Liu Renwen, professore dell’Accademia delle Scienze Sociali cinese, ha ribadito che sono circa 8.000 le persone giustiziate ogni anno in Cina secondo stime che circolano in ambiente accademico.
Il 15 marzo 2007, Liu Jiachen, consigliere politico ed ex vice presidente della Corte Suprema del Popolo, ha dichiarato che il numero di condanne a morte emesse in Cina nel 2006 è il più basso degli ultimi dieci anni, senza però rivelarne il numero esatto.
Il 7 giugno 2007, John Kamm, fondatore della Fondazione Dui Hua, ha reso noto che le esecuzioni capitali in Cina sarebbero diminuite negli ultimi anni di almeno il 40% per un totale di circa 7.500 esecuzioni l’anno. Un effetto che dipenderebbe, secondo Kamm, dall’assegnazione avvenuta sei anni fa delle Olimpiadi del 2008 a Pechino.
L’8 giugno 2007, Ni Shouming, un portavoce della Corte Suprema, ha dichiarato che nei primi cinque mesi dell’anno, il numero di esecuzioni praticate in Cina è diminuito del 10% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un effetto, ha spiegato il magistrato, legato prevalentemente alla riforma che restituisce alla Corte Suprema il potere esclusivo di rivedere e ratificare le condanne a morte che ha reso la stessa Corte ed i tribunali di grado inferiore più prudenti nell’emettere condanne capitali.
Per Chen Weidong, docente di diritto penale presso la Renmin University of China, le condanne a morte emesse nel 2007 sono destinate a diminuire del 20%.
Sono stime che confermano comunque la Cina come primo paese boia al mondo, un primato che molto probabilmente resterà imbattuto nella storia moderna della pena di morte e che, oltre a suscitare le critiche delle organizzazioni internazionali per i diritti umani, ha iniziato a far riflettere le stesse autorità cinesi, tant’è che si sono iniziati a registrare alcuni progressi.
Il più significativo è sicuramente quello dell’approvazione il 31 ottobre 2006 di un emendamento che prevede che tutte le condanne a morte devono essere confermate dalla Corte Suprema. La nuova disposizione, entrata in vigore il 1° gennaio 2007, è ritenuta una delle più importanti riforme degli ultimi vent’anni sulla pena di morte in Cina, e segna un’inversione rispetto alle campagne del “colpire duro” avviate negli anni 80.
La Cina sta dunque divenendo più prudente nel ricorso alla pena capitale. Il 9 novembre 2006, il Presidente della Corte Suprema Xiao Yang ha dichiarato: “Nei casi in cui il giudice abbia legalmente un margine di discrezionalità, deve sempre scegliere di non infliggere la pena capitale”. Parole pronunciate in una riunione nazionale di magistrati, aggiungendo tuttavia che nel Paese le condizioni non sono ancora ‘mature’ per un’abolizione totale. Anche la portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Jiang Yu, ha chiarito che è prematuro pensare all’abolizione della pena di morte. “A giudicare dalla situazione attuale in Cina, non vi sono ancora le condizioni giuste” per abolirla, “ma la nostra politica è restringere attentamente la pratica attraverso la legislazione e il sistema legale”.
Inoltre, a partire dal 1° luglio 2006, tutti i processi d’appello relativi a casi capitali dovrebbero svolgersi in Cina con udienze pubbliche. Gli avvocati difensori potranno pronunciare le loro arringhe e gli imputati rendere deposizioni. Le udienze saranno videoregistrate, in modo da poterle riesaminare. “In questo modo – ha dichiarato Xiao Yang, presidente della Corte Suprema del Popolo - il nostro sistema giudiziario farà riferimento a nuovi e più alti standard”.
Nonostante questi primi segnali di un, almeno apparente, approccio garantista, nel tritacarne giudiziario cinese sono continuati a finire imputati di reati violenti e non violenti: attentatori dinamitardi e militanti separatisti, assassini e rapinatori, sequestratori e stupratori, narcotrafficanti e spacciatori, contrabbandieri di armi, contraffattori di banconote e di fatture, protettori e tombaroli, corrotti e corruttori, sono stati processati in grandi adunate, esposti al pubblico, costretti a tenere al collo un cartello con il loro nome e il reato e infine giustiziati.

Iran, di nuovo secondo sul podio della disumanità  Nel 2006, l’Iran ha visto quasi raddoppiare le esecuzioni, e si è piazzato al secondo posto, dopo la Cina, anche se in rapporto alla popolazione è come se fosse arrivato primo.
Le esecuzioni sono state almeno 215, a fronte delle 113 del 2005. E l’escalation non sembra destinata a diminuire tenuto conto che il 16 giugno 2007 le esecuzioni complessive erano già 102.
I dati reali sulle esecuzioni potrebbero essere ancora più alti: le autorità non forniscono statistiche ufficiali e i numeri riportati sono relativi alle sole notizie pubblicate dai giornali iraniani, che evidentemente non riportano tutte le esecuzioni.
Il 5 giugno 2006, siti iraniani di lingua persiana hanno riportato la notizia che un uomo e una donna sono stati lapidati circa tre settimane prima. Il 5 luglio 2007, un uomo è stato lapidato e l’11 luglio otto donne sono state condannate alla lapidazione.
Nel corso del 2006, 7 donne sono state giustiziate e 11 altre sarebbero in attesa di esecuzione.
L’Iran ha giustiziato almeno 7 minorenni nel 2006 e ne ha condannati a morte almeno 6, un fatto che pone il paese in aperta violazione della Convenzione sui Diritti del Fanciullo che pure ha ratificato. Al 20 giugno 2007, secondo l’organizzazione Human Rights Watch, sarebbero almeno 2 i minorenni giustiziati, mentre sarebbero almeno 71 quelli in attesa di esecuzione.
A riprova della recrudescenza del regime iraniano vi è anche la ripresa delle esecuzioni di massa.
Tra il 15 luglio ed il 2 agosto 2007, 38 persone sono state giustiziate in 9 diverse città iraniane, 16 in pubblico e 12 esecuzioni sono state trasmesse in televisione.
L'ondata di esecuzioni, congiuntamente alla notizia del 31 luglio 2007 della condanna a morte di due giornalisti curdo-iraniani, Abdolvahed Hiwa Boutimar e Adnan Hosseinpour per essere 'mohareb', che in persiano significa 'nemici di Dio', ha suscitato le reazioni dei Governi francese ed italiano.
Non c’è solo la pena di morte, secondo i dettami della Sharia iraniana, ci sono anche torture, amputazioni degli arti, fustigazioni e altre punizioni crudeli, disumane e degradanti. Non si tratta di casi isolati e avvengono in aperto contrasto con il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici.

Pakistan, esecuzioni raddoppiate  Nella graduatoria mondiale della pena di morte, il Pakistan si è piazzato al terzo posto con almeno 82 esecuzioni nel 2006, quasi il doppio rispetto alle 42 dell’anno precedente.
Le esecuzioni si sono concentrate nel Punjab, la regione più popolosa del paese e dove si manifestano le maggiori tensioni.
Il Pakistan è insieme all’Iran l’altro paese che si è reso responsabile anche dell’esecuzione di minorenni al momento del fatto. Il 13 giugno 2006, Mutabar Khan è stato giustiziato nella prigione centrale di Peshawar dopo essere stato condannato per omicidio nel 1998. Mutabar aveva 16 anni al momento dell’arresto nel 1996. Il 6 giugno, il Ministero dell’Interno gli aveva concesso una proroga di 15 giorni e due giorni dopo la famiglia della vittima aveva concesso il prezzo del sangue poi ritrattato per cui Mutabar è finito sulla forca.

Democrazia e pena di morte

Dei 51 paesi mantenitori della pena di morte, sono 11 quelli che possiamo definire di democrazia liberale, con ciò considerando non solo il sistema politico del paese, ma anche il sistema dei diritti umani, il rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello stato di diritto.
Le democrazie liberali che nel 2006 hanno praticato la pena di morte sono state 5 e hanno effettuato in tutto 64 esecuzioni, pari all’1,2% del totale mondiale: Stati Uniti (53), Giappone (4), Mongolia (almeno 3), Indonesia (3) e Botswana (1).
Nel 2006 e nei primi sette mesi del 2007, non vi sono state invece esecuzioni a Taiwan, l’altra democrazia che nel 2005 aveva compiuto una esecuzione.

Nel 2006, l’uso della pena di morte negli Stati Uniti è continuato a diminuire. Il numero di esecuzioni è stato il più basso degli ultimi dieci anni: 53, quasi la metà rispetto al numero record di 98, registrate nel 1999.
Dei 53 giustiziati del 2006, 5 erano “volontari”, ossia persone che, con l’intento di accelerare la propria esecuzione, avevano volontariamente rinunciato a presentare la lunga serie di appelli disponibili per i condannati a morte.
Il sud degli Stati Uniti ha compiuto l’83% delle esecuzioni dello scorso anno. Come al solito, il Texas da solo è stato responsabile di quasi la metà delle esecuzioni nazionali, 24 per l’esattezza.
Anche il numero di condanne a morte è diminuito: 112 nel 2006, contro le 128 del 2005 e le 138 del 2004.
Il numero complessivo di detenuti nei bracci della morte nel 2006 (3.344) è leggermente aumentato rispetto al 2005 (3.254). L’aumento si spiega con il venir meno degli effetti delle sentenze garantiste del 2002 e del 2005 della Corte Suprema contro le esecuzioni, rispettivamente, di minorati mentali e di minorenni.
Inoltre, per la prima volta un sondaggio Gallup a livello nazionale ha segnalato che la condanna all’ergastolo senza condizionale ha superato, come preferenze, la condanna a morte. Un successivo sondaggio del Death Penalty Information Center, reso noto il 9 giugno 2007, ha rivelato inoltre che il 58% degli americani è favorevole ad una moratoria. Le esecuzioni,
Hanno contribuito a riaprire la discussione sulla pena di morte le modalità con cui essa viene applicata, i pregiudizi razziali e di classe, ma soprattutto le continue scoperte di errori giudiziari.
L’11 maggio 2007, Curtis Edward McCarty è stato liberato dal braccio della morte dell’Oklahoma, nel quale ha trascorso 21 anni. Il suo è il 124° caso di esonero dal braccio della morte dal 1973, ed il primo nel 2007.
La vera battaglia sulla pena di morte si sta giocando a livello di legislature statali, dove si è continuato a discutere di moratoria delle esecuzioni capitali o abolizione della pena di morte.
Nel 2006 e nel 2007 i dubbi che maggiormente hanno attraversato magistrati e politici sono legati alle modalità con cui viene eseguita l’iniezione letale. Dubbi che a tutt’oggi hanno portato ad una sospensione delle esecuzioni in California, Delaware, Florida, Maryland, Missouri e North Carolina.
In Illinois, per il settimo anno consecutivo, è stata rispettata la moratoria delle esecuzioni.
Il 12 gennaio 2006, il New Jersey è divenuto il primo stato ad aver introdotto per legge una moratoria delle esecuzioni capitali.
Nello stato di New York, dove la corte d’appello nel 2004 aveva dichiarato incostituzionali alcuni aspetti della legge capitale, la politica ha anche per quest’anno, volutamente, rinviato un adeguamento della legge, lasciando così in vigore una moratoria seppure non dichiarata.
Dal 21 febbraio 2006 in California sono sospese tutte le esecuzioni perché un giudice ha chiesto che vengano rivisti i protocolli dell’iniezione letale. Tra udienze e rinvii, la sospensione è durata tutto il 2006 e si prevede durerà anche tutto il 2007 e probabilmente anche i primi mesi del 2008.
Il 25 gennaio 2007, il North Carolina ha bloccato tutte le esecuzioni su ordine di un giudice, anche qui per problemi relativi alla iniezione letale.
Il 12 febbraio 2007, la Camera dei Rappresentanti del New Mexico ha approvato un disegno di legge per abolire la pena di morte, sostituendola con l'ergastolo,  ma l'8 marzo, il disegno di legge è stato bocciato dalla Commissione Giustizia del Senato.
Il 21 febbraio 2007, il Governatore del Maryland Martin O’Malley ha sostenuto in parlamento la necessità di eliminare la pena di morte, da sostituire con l’ergastolo senza condizionale.
In controtendenza il Sud Dakota che l’11 luglio 2007, dopo 60 anni, ha effettuato la prima esecuzione di un detenuto che non aveva chiesto la grazia e aveva dichiarato di voler morire.

Il Giappone mantiene il massimo riserbo sulle esecuzioni. I detenuti di solito non sono informati sulla data della loro esecuzione fino al giorno dell’impiccagione. Secondo un rapporto della Japan Federation of Bar Associations pubblicato il 18 gennaio 2007, i tribunali giapponesi hanno inflitto un sempre maggior numero di condanne a morte. Si è infatti passati dall’unica condanna pronunciata nel corso del 2003 alle 19 sentenze capitali emesse nel 2006. Anche il numero dei detenuti nei bracci della morte è in costante crescita.
Nel 2006 sono state giustiziate 4 persone e nel 2007 sono già state eseguite sei condanne a morte, tre il 27 aprile e altre tre il 23 agosto scorso. Il Ministro della Giustizia avrebbe ordinato le esecuzioni perché i detenuti nei bracci della morte avevano superato i cento.

Le esecuzioni sono state abbastanza rare in Indonesia fino al 2004 quando, nel quadro di una campagna nazionale contro l’abuso e lo spaccio di droga lanciata dall’allora Presidente Megawati Sukarnoputri in vista delle elezioni di ottobre, tre cittadini stranieri sono stati fucilati per traffico di eroina.
Le esecuzioni nel 2006 sono state tre, effettuate il 22 settembre 2006 nei confronti di tre cristiani, Fabianus Tibo, Marianus Riwu e Dominggus Silva, condannati a morte nel 2001 per aver guidato la folla che l’anno prima aveva assaltato una scuola coranica nella provincia del Sulawesi Centrale, uccidendo più di 200 musulmani.
Il 28 aprile 2007 è stato giustiziato un uomo di 40 anni giudicato colpevole di aver ucciso, nel 1999, una famiglia di sei persone, inclusi quattro bambini.

Negli ultimi anni, il Governo di Taiwan ha più volte manifestato la volontà politica di arrivare all’abolizione della pena di morte, nel quadro di una più generale attenzione alla tutela dei diritti umani. L’evoluzione positiva si è tradotta in una drastica riduzione delle condanne a morte e delle esecuzioni nel paese dove dalle 32 esecuzioni del 1998 si è passati a nessuna nel 2006.

Il 1° aprile 2006, dopo due anni di sospensione sono riprese le esecuzioni in Botswana con l’impiccagione avvenuta in segreto di Modisane Ping, condannato per gli omicidi della fidanzata e del figlio di quest’ultima, un bambino di sei anni.

Abolizioni legali, di fatto e moratorie

Il trend mondiale verso l’abolizione di diritto o di fatto della pena di morte in corso ormai da oltre dieci anni ha trovato una decisa conferma anche nel 2006 e nei primi sette mesi del 2007.
Quattro paesi sono divenuti completamente abolizionisti. Il 26 luglio 2007, è entrata in vigore in Ruanda la legge che ha definitivamente cancellato la pena capitale dall’ordinamento del paese. L’Albania da abolizionista per crimini ordinari è divenuta completamente abolizionista ratificando il 13° Protocollo alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali relativo all’abolizione delle pena di morte in ogni circostanza, mentre le Filippine e il Kirghizistan hanno abolito totalmente la pena di morte dopo anni di moratoria.
Lo Zambia ha superato dieci anni senza praticarla e quindi da mantenitore è divenuto abolizionista di fatto.
Significativo in Europa è il processo di abolizione della pena di morte anche dalla Costituzione, come è avvenuto in Francia agli inizi del 2007 e sta avvenendo in Italia ed in Georgia.
Il New Jersey è divenuto il primo stato della federazione americana ad aver introdotto con una legge la moratoria delle esecuzioni capitali.
Ulteriori passi verso l’abolizione o sviluppi positivi si sono verificati in Africa (Gabon, Mali, Marocco e Tanzania) e in Asia (Giordania, Thailandia, Papua Nuova Guinea e Uzbekistan).

Ripresa delle esecuzioni

Sul fronte opposto, si sono registrati casi di ripresa delle esecuzioni, dopo anni di sospensione, in Bahrein, Botswana, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Guinea Equatoriale e Malesia.
Negli USA, il Sud Dakota ha effettuato la prima esecuzione dopo 60 anni di sospensione di fatto.

Pena di morte in base alla Sharia

Nel 2006, almeno 541 esecuzioni, contro le 302 dell’anno prima, sono state effettuate in 16 paesi a maggioranza musulmana, molte delle quali ordinate da tribunali islamici in base a una stretta applicazione della Sharia. Ma il problema non è il Corano, perché non tutti i paesi islamici che a esso si ispirano praticano la pena di morte o fanno di quel testo il proprio codice penale, civile o, addirittura, la propria Carta fondamentale. Il problema è la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali o autoritari al fine di impedire qualsiasi processo democratico.
Dei 49 paesi a maggioranza musulmana nel mondo, 21 possono essere considerati a vario titolo abolizionisti, mentre i mantenitori della pena di morte sono 28, dei quali 16 l’hanno praticata nel 2006.
Impiccagione, decapitazione e fucilazione, sono stati i metodi con cui è stata applicata la Sharia nel 2006 e nei primi sette mesi del 2007

Condanne a morte tramite lapidazione sono state emesse in Arabia Saudita, Nigeria, Somalia, Sudan e in Iran, dove almeno tre persone sono state lapidate nel periodo che copre il 2006 e i primi sette mesi del 2007. Il 5 giugno 2006, siti iraniani hanno riportato che un uomo e una donna sarebbero stati lapidati circa tre settimane prima. Il 5 luglio 2007, un uomo è stato lapidato, dopo essere stato condannato a morte per adulterio e aver trascorso 11 anni in carcere.
Due uomini e una donna sono stati lapidati in Pakistan nel 2007, ma si è trattato di una esecuzione extra-giudiziaria, effettuata su ordine di una giuria tribale.
Si sono risolti con la commutazione della condanna vari casi di lapidazione negli Emirati Arabi Uniti.

L’alternativa alla lapidazione, in esecuzione di sentenze capitali in base alla Sharia, può essere l’impiccagione, la quale è preferita per gli uomini ma non risparmia le donne. Impiccagioni in base alla Sharia sono state effettuate nel 2006 in Afghanistan, Iran, Kuwait, Pakistan e Sudan.
L’impiccagione è spesso eseguita in pubblico e combinata a pene supplementari come la fustigazione e l’amputazione degli arti prima dell’esecuzione. È quel che è accaduto in molti casi in Iran, dove le esecuzioni sono state a volte contestate dalla folla chiamata ad assistervi.

La decapitazione come metodo per eseguire sentenze in base alla Sharia, è un’esclusiva dell’Arabia Saudita, il paese islamico che segue l’interpretazione più rigida della legge islamica. Di solito l’esecuzione avviene nella città dove è stato commesso il crimine, in un luogo aperto al pubblico vicino alla moschea più grande. Il condannato viene portato sul posto con le mani legate e costretto a chinarsi davanti al boia, il quale sguaina una lunga spada tra le grida della folla che urla “Allahu Akbar!” (“Dio è grande”).
L’Arabia Saudita ha un numero di esecuzioni tra i più alti al mondo. Il record è stato stabilito nel 1995 con 191 esecuzioni. Le esecuzioni nel 2006 sono state 39, un numero nettamente più basso rispetto alle 90 del 2005. Ma nei primi sette mesi del 2007 si sono già registrate 119 decapitazioni.

Non propriamente una punizione islamica, la fucilazione è pure stata applicata nel 2006 e nel 2007 in esecuzione di condanne in base alla Sharia in Pakistan, Yemen e Somalia.

Secondo la legge islamica, i parenti della vittima di un delitto possono richiedere un compenso in denaro, detto “prezzo del sangue”, graziare l’autore del fatto o permettere che l’esecuzione della pena abbia luogo. Casi di perdono dietro compenso in denaro si sono verificati nel 2006 e nel 2007 in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Libia, Pakistan e Yemen. 
In Somalia, invece, dopo il rifiuto del “prezzo del sangue”, sono stati gli stessi parenti della vittima a eseguire la sentenza. Particolarmente cruenta l’esecuzione avvenuta il 2 maggio 2006 a Mogadiscio, dove un ragazzo somalo di 16 anni, Mohamed Moalim, su ordine del tribunale islamico, ha giustiziato in pubblico l’uomo riconosciuto colpevole dell’omicidio di suo padre. Mohamed si è avvicinato al condannato a morte, Omar Hussein, che era incappucciato e legato ad un palo, colpendolo più volte con un coltello al petto, alla gola e alla testa, fino ad ucciderlo.

Pena di morte nei confronti di minori
 
Applicare la pena di morte a persone che avevano meno di 18 anni al momento del reato è in aperto contrasto con quanto stabilito dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo.
Nel 2006, sono stati giustiziati nel mondo almeno 8 minorenni: in Iran (7) e in Pakistan (1). Nel 2007, due minori sono stati giustiziati in Iran e uno in Arabia Saudita.
Vi sarebbero inoltre minorenni detenuti nei bracci della morte della Repubblica Democratica del Congo e dello Yemen.

La “guerra alla droga”

Il proibizionismo sulle droghe ha dato un contributo consistente alla pratica della pena di morte nel 2006 e nei primi mesi del 2007. Nel nome della guerra alla droga e in base a leggi sempre più restrittive, sono state effettuate esecuzioni in Arabia Saudita, Cina, Kuwait, Iran, Nord Corea, Singapore e Vietnam.
Condanne a morte sono state pronunciate anche se non eseguite in Bangladesh, Brunei, Indonesia, Emirati Arabi Uniti, Malesia, Laos, Thailandia e Yemen.
Delle 39 esecuzioni del 2006 in Arabia Saudita, 14 sono state effettuate per reati di droga. Nei primi sette mesi del 2007 sarebbero almeno 36 le persone decapitate per reati di droga; 5 sono sauditi tutti gli altri stranieri.
Come accade di solito in Cina in prossimità di feste nazionali e di date simboliche internazionali, decine di trafficanti di droga sono stati condannati a morte o giustiziati in occasione del 26 giugno 2006, Giornata Internazionale Contro la Droga. Sarebbero state almeno 61 le esecuzioni avvenute in quest’occasione, di cui 26 nella sola giornata del 26 giugno.
Secondo le stesse autorità, molte esecuzioni in Iran sono relative a reati di droga, ma è opinione di osservatori sui diritti umani che molti di quelli giustiziati per reati comuni, in particolare per droga, possano essere in realtà oppositori politici.
A Singapore la pena di morte è obbligatoria per il traffico di 15 grammi o più di eroina, 30 grammi di cocaina o 500 grammi di cannabis. Secondo dati resi noti nel gennaio 2007, più di 420 persone sono state giustiziate dal 1991, la maggior parte per reati di droga.
Delle 14 esecuzioni riportate dai media statali in Vietnam nel 2006, 13 sono state effettuate per droga. Una direttiva della Corte Suprema del Popolo del luglio 2001 raccomanda la pena di morte per possesso di oltre 600 grammi di eroina.

La “guerra al terrorismo”

Nel 2006 e nei primi sette mesi del 2007 sono state approvate leggi anti-terrorismo in Malesia e in Bahrein mentre in Bangladesh è all’esame del Governo un disegno di legge che prevede l’applicazione della pena di morte e una restrizione delle libertà pubbliche e dei diritti civili.
In seguito all’approvazione nel 2005 di una legge anti-terrorismo, quasi tutte le 65 esecuzioni rese note in Iraq nel 2006 e nei primi sette mesi del 2007 si sono avute per questo reato.
Nel 2006 il Presidente degli Stati Uniti George Bush ha firmato la nuova versione del Patriot Act, la legge antiterrorismo varata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 che scadeva il 31 dicembre 2005. Una parte della legge prevede una diminuzione delle garanzie di appello per i condannati a morte.
In nome della lotta al terrorismo e “legittimati” dalla partecipazione alla Grande Coalizione nata in seguito agli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, paesi autoritari e illiberali hanno continuato nella violazione dei diritti umani al proprio interno e, in alcuni casi, hanno giustiziato e perseguitato persone in realtà coinvolte solo nella opposizione pacifica o in attività sgradite al regime. Ciò è avvenuto, in particolare, in Cina nei confronti di leader musulmani Uiguri del movimento che lotta per uno stato indipendente nel Turkestan Orientale. L’8 febbraio 2007, Ismail Semed è stato giustiziato a Urumchi, nello Xinjiang. Era stato condannato a morte nell’ottobre 2005 per “tentato separatismo”. Era un attivista politico per i diritti umani degli Uiguri.

La persecuzione di appartenenti a movimenti religiosi o spirituali
 
Nel 2005 è entrata in vigore in Cina una legge che il Governo ha presentato come un “significativo passo avanti nella protezione della libertà di religione dei cittadini cinesi”. Tuttavia è continuata la repressione nei confronti di movimenti religiosi o spirituali non autorizzati dallo stato: protestanti e cattolici, musulmani Uiguri e buddisti tibetani. Il Governo ha continuato anche la repressione dei movimenti che considera “culti” ed in particolare del Falun Gong, i cui praticanti hanno continuato a subire arresti, detenzioni e vi sono attendibili prove di persone morte a causa di torture e abusi subiti.
In Corea del Nord, non si sono registrati cambiamenti positivi nel corso del 2006. A causa dell’inaccessibilità del paese e alla indisponibilità di notizie tempestive è difficile documentare per il 2006 la continuazione della persecuzione. Gruppi religiosi e per la difesa dei diritti umani fuori dalla Corea del Nord hanno continuato a fornire informazioni relative alla persecuzione di protestanti, cattolici, buddisti e membri di Chiese cristiane clandestine. Fedeli cristiani sono stati imprigionati, picchiati, torturati o uccisi per aver letto la Bibbia e predicato Dio, in particolare per aver avuto legami con gruppi evangelici operanti oltre confine in Cina.
La campagna condotta in Vietnam contro le religioni non riconosciute è continuata nel 2006 e nei primi sette mesi del 2007. Particolarmente dura la repressione nei confronti dei Montagnard, la minoranza etnica di religione cristiana che abita gli altipiani centrali, accusata di credere in una “religione americanista” e di avere cooperato con le truppe statunitensi durante la guerra in Vietnam. Secondo la Fondazione Montagnard, sono oltre 350 i cristiani di etnia Degar che si trovano tuttora in prigione.

Pena di morte per reati politici e di opinione
 
È opinione di osservatori sui diritti umani che molti dei giustiziati in Iran per reati comuni, in particolare per droga, possano essere in realtà oppositori politici.
Anche nel 2006, la magistratura ha continuato a trattare come “mohareb”, cioè nemici di Allah, gli arrestati durante le proteste anti-regime che si sono svolte nella capitale e in altre città iraniane, in cui si sono verificati scontri fra dimostranti e pasdaran, i guardiani della Rivoluzione Islamica creati per la difesa del regime dei mullah. L’accusa di essere un mohareb comporta in Iran un processo rapido e severo che si risolve spesso con la pena di morte.
Il 7 febbraio 2006, Hojjat Zamani, 31 anni, prigioniero politico e membro dei Mojahedin del Popolo, è stato impiccato nella prigione Gohardasht a Karaj, ad ovest di Teheran.
Il 16 luglio 2007, due giornalisti curdo-iraniani, Abdolvahed Hiwa Boutimar e Adnan Hosseinpour, sono stati condannati a morte, dopo essere stati giudicati "nemici di Dio" dal tribunale di Marivan, nel Kurdistan iraniano. "Azioni contro la sicurezza nazionale" e "contatti con organizzazioni sovversive" sono le accuse mosse contro i due giornalisti.
Nel suo Rapporto del 2001 al Comitato Diritti Umani dell’ONU, la Corea del Nord aveva asserito di aver ridotto il numero dei reati capitali da 33 a 5. Ma 4 di quelli rimasti sono di natura essenzialmente politica. Il codice penale prevede infatti la pena di morte obbligatoria per attività “in collusione con gli imperialisti” volte a “sopprimere la lotta di liberazione nazionale”. La pena di morte può essere inoltre applicata per “divergenza ideologica”, “opposizione al socialismo” e “crimini controrivoluzionari”. Il 1° febbraio 2007, un sergente e un funzionario della guardia di frontiera sono stati condannati a morte per aver aiutato a uscire dal paese persone che il regime definisce “disertori”, cioè “quelli che tradiscono la madrepatria e scappano in altri stati”.

La pena di morte “top secret”

Molti paesi, per lo più autoritari, non forniscono statistiche ufficiali sull’applicazione della pena di morte.
In Cina e Vietnam la questione è considerata per legge un segreto di stato e le notizie di esecuzioni riportate dai giornali locali rappresentano una minima parte del fenomeno.
In piena continuità con la tradizione sovietica, la pena di morte è considerata un segreto di stato anche in Bielorussia, dove i dati disponibili su condanne a morte ed esecuzioni sono quelli forniti da organizzazioni internazionali oppure relativi solo a notizie uscite su media statali o dalle prigioni tramite parenti dei giustiziati. Anche qui il numero reale delle esecuzioni potrebbe essere più alto.
In quasi tutti i paesi autoritari, dall’Egitto all’Iran, allo Yemen o al Sudan, dove pure non esiste segreto di stato sulla pena di morte, il Governo non pubblica statistiche né fornisce dati ufficiali. Le sole informazioni disponibili sulle esecuzioni sono tratte da notizie uscite su media statali che evidentemente non riportano tutti i fatti.
Ci sono poi situazioni in cui le esecuzioni sono tenute assolutamente nascoste e le notizie non filtrano nemmeno dai giornali locali. È il caso della Corea del Nord.
Vi sono paesi, infine, dove le esecuzioni sono di dominio pubblico solo una volta che sono state effettuate. I familiari, gli avvocati e gli stessi detenuti condannati a morte sono tenuti all’oscuro del giorno in cui sarà eseguita la sentenza. È quel che avviene, ad esempio, in Arabia Saudita, Botswana e Giappone.

La “civiltà” dell’iniezione letale

I paesi che hanno deciso recentemente di passare dalla sedia elettrica, dall’impiccagione o dalla fucilazione alla iniezione letale come metodo di esecuzione, hanno presentato il cambio come una conquista di civiltà e un modo più umano e indolore per giustiziare i condannati a morte. La realtà è diversa.
Il 12 giugno 2006, con voto unanime, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto ai condannati a morte il diritto di presentare appelli sulla legittimità dell’iniezione letale. La decisione dei giudici di Washington ha aperto la strada a una battaglia legale su scala nazionale.
L’argomentazione comune ai ricorsi nei vari stati è che il secondo farmaco utilizzato nell’iniezione, quello che paralizza i muscoli, in realtà impedirebbe solo ai condannati di mostrare il dolore per il terzo farmaco, quello che blocca il cuore, ma non di provarlo. Un dolore, peraltro, che sarebbe particolarmente forte, e non di brevissima durata. Diverse perizie affidate ad esperti di anestesiologia hanno evidenziato la possibilità che il primo farmaco a venir iniettato, il barbiturico con funzione anestetica, potrebbe non essere sufficiente a rendere incosciente il condannato per le fasi successive dell’esecuzione.
Il 24 aprile 2007, uno studio scientifico condotto negli Stati Uniti su 41 iniezioni letali praticate in California e North Carolina negli ultimi 20 anni, ha sollevato ulteriori dubbi sulla capacità dell’iniezione letale di procurare la morte senza dolore. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Public Library of Science Journal, ha evidenziato che il sodio tiopentale, il barbiturico che serve a far perdere conoscenza, è stato somministrato in quantità fissa, senza tenere conto delle caratteristiche del detenuto, come il peso corporeo o eventuali patologie. Se non addormentato completamente – dicono i ricercatori – il detenuto potrebbe avvertire una sensazione di soffocamento indotta dalla seconda sostanza, il bromuro di pancuronium, una sostanza paralizzante. Infine arriva il cloruro di potassio, che provoca l’arresto cardiaco: a questo punto il condannato potrebbe sentire la sensazione di ardere vivo.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista medica insieme a un editoriale nel quale i responsabili della rivista spiegano che non è loro intento quello di migliorare il protocollo, bensì suggerire la necessità di abolire del tutto la pena di morte.
In base a questi dubbi giudici dell’Arkansas, California, Delaware, Florida, Maryland, Missouri, New Jersey, Nord Carolina, Ohio, Sud Dakota, Tennessee, Texas e del sistema federale nazionale hanno bloccato delle esecuzioni.
Nel 1997 la Cina ha introdotto il metodo dell’iniezione letale (applicata per la prima volta nello Yunnan) e, da pochi anni, in molte province sono state allestite delle unità mobili su dei furgoni opportunamente modificati che raggiungono il luogo dell’esecuzione.
Il furgone della morte è una comune camionetta della polizia bianca e blu che attende parcheggiata davanti al tribunale che deve pronunciare la sentenza. Al suo interno si trova un lettino che si alza e abbassa come un tavolo operatorio. È collocato al centro del veicolo e c’è spazio su entrambi i lati per l’ufficiale giudiziario, per l’esperto medico di tribunale e per uno o due poliziotti che immobilizzano il condannato assicurandolo con delle cinghie al lettino.
Una volta inserito l’ago, un poliziotto preme un bottone e automaticamente la sostanza letale viene iniettata nella vena. L’esecuzione può essere seguita su un monitor accanto al posto di guida ed eventualmente registrata. Le esecuzioni possono così effettuarsi in pochi minuti dopo l’emissione della condanna a morte, senza la necessità di trasferirsi in luoghi pubblici dove possono verificarsi tumulti.