I fatti più importanti del 2013 (e dei primi sei mesi del 2014)

Conferenza regionale in Sierra Leone, Freetown gennaio 2014

12 Gennaio 2017 :

SINTESI DEL RAPPORTO 2013

LA SITUAZIONE A OGGI

 

Sviluppi sulla pena di morte nel mondo

 

L’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre quindici anni, si è confermata nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014.
I Paesi o i territori che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica sono oggi 161. Di questi, i Paesi totalmente abolizionisti sono 100; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 7; quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni sono 6; i Paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte, sono 48.

I Paesi mantenitori della pena di morte sono scesi a 37 (al 30 giugno 2014) rispetto ai 40 del 2012. I Paesi mantenitori sono progressivamente diminuiti nel corso degli ultimi anni: erano 43 nel 2011, 42 nel 2010, 45 nel 2009, 48 nel 2008, 49 nel 2007, 51 nel 2006 e 54 nel 2005.

 

Esecuzioni in aumento nel 2013

 

Nel 2013, i Paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali sono stati 22, come nel 2012, mentre erano stati 20 nel 2011, 22 nel 2010, 19 nel 2009 e 26 nel 2008.

Nel 2013, le esecuzioni sono state almeno 4.106, a fronte delle almeno 3.967 del 2012, delle almeno 5.004 del 2011, delle almeno 5.946 del 2010, delle almeno 5.741 del 2009 e delle almeno 5.735 del 2008. Il lieve aumento delle esecuzioni nel 2013 rispetto al 2012 si giustifica con l’aumento registrato in Iran e in Iraq.

Nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014, non si sono registrate esecuzioni in 2 Paesi – Gambia e Pakistan – che le avevano effettuate nel 2012.

Viceversa, 8 Paesi hanno ripreso le esecuzioni: Indonesia (5), Kuwait (5), Malesia (3), Nigeria (4) e Vietnam (almeno 8) nel 2013; Bielorussia (2), Emirati Arabi Uniti (1) ed Egitto (almeno 8) nel 2014.

 

Quadro regionale

 

Ancora una volta, l’Asia si conferma essere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. Se stimiamo che in Cina vi sono state almeno 3.000 esecuzioni (più o meno come nel 2012 e circa 1.000 in meno rispetto al 2011), il dato complessivo del 2013 nel continente asiatico corrisponde ad almeno 4.010 esecuzioni (il 97,6%), un po’ di più rispetto al 2012 quando erano state almeno 3.879.

Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Stati Uniti, l’unico Paese del continente che ha compiuto esecuzioni (39) nel 2013.

Il 9 ottobre 2013, la Commissione Inter-Americana sui Diritti Umani (IACHR) ha esortato i Paesi caraibici che hanno ancora la pena di morte ad abolirla o almeno ad introdurre una moratoria sulla sua applicazione. In un messaggio per la Giornata Internazionale contro la Pena di Morte del 10 ottobre, la IACHR ha detto che gli strumenti regionali per la protezione dei diritti umani non vietano di per sé l’imposizione della pena di morte, ma stabiliscono limitazioni e divieti specifici per quanto riguarda la sua applicazione. La Commissione ha esortato inoltre i Paesi caraibici a ratificare il Protocollo della Convenzione Americana sui Diritti Umani per l’Abolizione della Pena di Morte, ad astenersi dall’adottare qualsiasi misura che possa espandere l’applicazione della pena di morte o reintrodurla e a prendere tutte le misure necessarie per garantire il rispetto delle più severe norme del giusto processo nei casi che comportano l’applicazione della pena di morte.

In Africa, nel 2013, la pena di morte è stata praticata in 5 Paesi (come nel 2012) e sono state registrate almeno 57 esecuzioni: Somalia (almeno 27), Sudan (almeno 21), Sudan del Sud (almeno 4), Nigeria (4), Botswana (1). Nel 2012 le esecuzioni effettuate in tutto il continente erano state almeno 44, nel 2011 almeno 24, nel 2010 almeno 43, nel 2009 almeno 19, come nel 2008 e contro le almeno 26 del 2007 e le 87 del 2006. Nel 2013, non si sono registrate esecuzioni in Gambia che le aveva effettuate nel 2012, mentre la Nigeria le ha riprese dopo una pausa che durava dal 2006.

In Europa, l’unica eccezione in un continente altrimenti totalmente libero dalla pena di morte è rappresentata dalla Bielorussia, un Paese che negli ultimi anni ha continuato a giustiziare suoi cittadini. In Bielorussia, per la prima volta dopo molti anni, non risulta siano state effettuate esecuzioni nel 2013, che però sono riprese nell’aprile 2014 (2). Nel 2012, sono state effettuate almeno tre esecuzioni. Nel 2011, sono stati fucilati due uomini per omicidio. Nel 2010, erano state effettuate due esecuzioni per omicidio. Nel 2009 non sono state effettuate esecuzioni, nel 2008 ne erano state effettuate 4 e nel 2007 una.

 

Abolizioni legali, di fatto e moratorie

 

Nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014, altri 12 Paesi hanno rafforzato ulteriormente il fronte a vario titolo abolizionista, perché hanno aderito al Secondo Protocollo Opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici per l’abolizione della pena di morte – Lettonia, Bolivia, Guinea-Bissau, Gabon ed El Salvador – o hanno superato i dieci anni senza effettuare esecuzioni – Repubblica Democratica del Congo, Qatar, Cuba, Zimbabwe, Ciad, Libano – o hanno stabilito una moratoria legale della pena di morte – Guinea Equatoriale.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, nel maggio 2013 il Maryland è diventato il sesto Stato ad abolire la pena di morte in sei anni. Gli altri cinque Stati che hanno recentemente abbandonato del tutto la pena capitale sono: New Jersey (2007), New York (2007), New Mexico (2009), Illinois (2011) e Connecticut (2012). In altri 3 Stati, i Governatori hanno annunciato che per tutta la durata del loro mandato non firmeranno mandati di esecuzione: Oregon e Colorado fino al gennaio 2015 e lo Stato di Washington fino al gennaio 2017. Delle 34 giurisdizioni in cui vige ancora la pena di morte, 9 non hanno effettuato esecuzioni da più di dieci anni (quindi, si può considerare che stiano attuando una “moratoria de facto”): Colorado (ultima esecuzione nel 1997), Kansas (1965), Nebraska (1997), New Hampshire (1939), Oregon (1997), Pennsylvania (1999), Wyoming (1992), Amministrazione Militare (1961) e Governo Federale (2003). Altri 5 Stati non compiono esecuzioni da 8 anni: Arkansas, California, Montana, Nevada e North Carolina. Sommando le giurisdizioni senza pena di morte (19), quelle che non compiono esecuzioni da 10 anni (9) e quelle che non ne compiono da 8 (5), si ha un totale di 33 giurisdizioni su 53 che non compiono esecuzioni da almeno 8 anni.

 

Verso l’abolizione

 

Nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014, ulteriori passi politici o legislativi verso l’abolizione si sono verificati in 23 Paesi.

Antigua e Barbuda ha abolito la pena di morte obbligatoria.

Tanzania, Comore, Marocco, Ghana, Suriname e Sierra Leone hanno annunciato o proposto leggi per l’abolizione della pena di morte nella Costituzione o nei codici penali.

In sede di Revisione Periodica Universale del Consiglio dei diritti umani dell’ONU, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo hanno accettato raccomandazioni per l’abolizione della pena di morte.

Zambia, Mali, Dominica, Giordania, Etiopia, Thailandia, Singapore, Uganda e Tunisia hanno confermato la loro politica di moratoria di fatto sulla pena di morte o sulle esecuzioni in atto da molti anni.

Commutazioni collettive di pene capitali o sospensioni di esecuzioni a tempo indeterminato sono state decise in Guyana, Pakistan, Myanmar e Camerun.

 

Ripristino della pena di morte e ripresa delle esecuzioni

 

Sul fronte opposto, come abbiamo visto, 8 Paesi hanno ripreso le esecuzioni nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014, in alcuni casi dopo molti anni di sospensione.

Inoltre, alcuni passi indietro politici o legislativi verso il ripristino della pena di morte e la ripresa delle esecuzioni sono stati fatti nei seguenti Paesi: Bahrein, Maldive, Sri Lanka, Papua Nuova Guinea, Brunei Darussalam e Kazakistan.

 

LA PENA DI MORTE NEI PAESI ILLIBERALI

 

Cina, Iran e Iraq i primi paesi boia del 2013 

 

Dei 37 mantenitori della pena di morte, 30 sono Paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. In 16 di questi Paesi, nel 2013, sono state compiute almeno 4.046 esecuzioni, il 98,5% del totale mondiale.

Un Paese solo, la Cina, ne ha effettuate almeno 3.000, circa il 74,5% del totale mondiale; l’Iran ne ha effettuate almeno 687; l’Iraq almeno 172; l’Arabia Saudita almeno 78; la Somalia almeno 27; il Sudan almeno 21; la Corea del Nord almeno 17; lo Yemen almeno 13; il Vietnam almeno 8; il Kuwait 5; il Sudan del Sud almeno 4; la Nigeria 4; la Malesia 3; la Palestina (Striscia di Gaza) almeno 3; l’Afghanistan 2; il Bangladesh 2. È probabile che esecuzioni “legali” siano avvenute anche in Siria nel 2013, anche se non è possibile confermarlo.

Molti di questi Paesi non forniscono statistiche ufficiali sulla pratica della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.

A ben vedere, in tutti questi Paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.

Sul terribile podio dei primi tre Paesi che nel 2013 hanno compiuto più esecuzioni nel mondo figurano tre Paesi autoritari: Cina, Iran e Iraq.

 

Cina

 

Anche se la pena di morte continua a essere considerata in Cina un segreto di Stato, negli ultimi anni si sono succedute notizie, anche di fonte ufficiale, in base alle quali condanne a morte ed esecuzioni sarebbero via via diminuite rispetto all’anno precedente. Tale diminuzione è stata più significativa a partire dal 1° gennaio 2007, quando è entrata in vigore la riforma in base alla quale ogni condanna a morte emessa da tribunali di grado inferiore deve essere rivista dalla Corte Suprema.

Da allora, la Corte Suprema ha annullato “in media” il 10 per cento delle condanne a morte pronunciate ogni anno nel Paese e le esecuzioni sono diminuite di oltre il 50%.

Considerato inoltre che, sin dal febbraio 2010, la Corte Suprema ha raccomandato di adottare la politica della “giustizia mitigata dalla clemenza”, suggerendo ai tribunali che i criminali non meritevoli di immediata esecuzione debbano essere condannati a morte con due anni di sospensione, è realistico ritenere che le esecuzioni nel 2013 siano state almeno 3.000, più o meno come nel 2012.

 

Iran

 

Il numero delle esecuzioni nel 2013 in Iran è stato il più alto in più di 15 anni. L’elezione di Hassan Rohani come Presidente della Repubblica islamica il 14 giugno 2013 ha portato molti osservatori, alcuni difensori dei diritti umani e la comunità internazionale a essere ottimisti. Tuttavia, il nuovo Governo non ha cambiato il suo approccio per quanto riguarda l’applicazione della pena di morte; anzi, il tasso di esecuzioni è nettamente aumentato a partire dall’estate del 2013. Secondo Iran Human Rights, almeno 870 persone sono state giustiziate nel corso del primo anno dopo le elezioni presidenziali (dal 1° luglio 2013 al 30 giugno 2014).

Secondo Iran Human Rights (IHR), nel 2013 sono state effettuate almeno 687 esecuzioni, un 16% in più rispetto al 2012: 388 esecuzioni (56%) sono state riportate da fonti ufficiali iraniane, mentre 299 (44%) sono state segnalate da fonti non ufficiali.

Secondo il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI), nel 2013 sono state registrate almeno 660 impiccagioni, delle quali 430 avvenute dopo le elezioni presidenziali del 14 giugno.

Nel 2013, secondo l’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani (OHCHR), sono state impiccate 625 persone, di cui almeno 28 donne e diversi prigionieri politici.

Secondo l’Iran Human Rights Documentation Center (IHRDC), nel 2013, la Repubblica islamica ha effettuato almeno 624 esecuzioni, 334 delle quali riferite da fonti ufficiali iraniane.

Secondo Human Rights Activists in Iran, nel 2013 sono state giustiziate almeno 585 persone, il 52% delle quali riconosciute colpevoli di traffico di droga.

Nel 2014, al 18 giugno, in base a un conteggio dell’Iran Human Rights Documentation Center (IHRDC), almeno 342 esecuzioni sono state effettuate in Iran, tra cui 125 annunciate dal regime.

 

Iraq

 

Nel 2013, l’Iraq ha giustiziato almeno 172 persone, di gran lunga il numero più alto dall’invasione USA nel 2003. Nel 2012, l’Iraq aveva messo a morte almeno 129 persone, un aumento significativo e preoccupante rispetto al 2011, quando sono state giustiziate almeno 68 persone, che erano già il quadruplo rispetto alle 17 messe a morte nel 2010.

Almeno 46 persone sono state impiccate in Iraq nel 2014, al 7 aprile.

Le esecuzioni sono iniziate nell’agosto 2005. Da allora, sono state eseguite almeno 665 condanne a morte, la gran parte per fatti di terrorismo.

 

DEMOCRAZIA E PENA DI MORTE

 

Dei 37 Paesi mantenitori della pena capitale, sono solo 7 quelli che possiamo definire di democrazia liberale, con ciò considerando non solo il sistema politico del Paese, ma anche il sistema dei diritti umani, il rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello Stato di diritto.

Le democrazie liberali che nel 2013 hanno praticato la pena di morte sono state 6 e hanno effettuato in tutto 60 esecuzioni, l’1,5% del totale mondiale: Stati Uniti (39), Giappone (8), Taiwan (6), Indonesia (5), Botswana (1), India (1). Nel 2012 erano state 5 (Stati Uniti, Giappone, Taiwan, Botswana e India) e avevano effettuato in tutto 58 esecuzioni. L’Indonesia ha ripreso le esecuzioni nel 2013 dopo una sospensione che durava dal 2008.

Nei primi mesi del 2014, al 30 giugno, i Paesi democratici che hanno praticato la pena di morte sono stati solo 3 e hanno effettuato in tutto 29 esecuzioni: Stati Uniti (23), Taiwan (5) e Giappone (1).

In molti di questi Paesi considerati “democratici”, il sistema della pena capitale è per molti aspetti anche coperto da un velo di segretezza.

 

LA PENA DI MORTE NEI PAESI MUSULMANI

 

Dei 47 Paesi e territori a maggioranza musulmana nel mondo, 25 possono essere considerati a vario titolo abolizionisti, mentre i mantenitori della pena di morte sono 22, dei quali 18 hanno nei loro ordinamenti giuridici richiami espliciti alla Sharia.

Comunque, il problema non è il Corano, perché non tutti i Paesi islamici che a esso si ispirano praticano la pena di morte o fanno di quel testo il proprio codice penale, civile o, addirittura, la propria legge fondamentale. Il problema è la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali o autoritari al fine di impedire qualsiasi cambiamento democratico.

Nel 2013, almeno 1.022 esecuzioni, contro le almeno 872 del 2012, sono state effettuate in 13 Paesi a maggioranza musulmana (1 in più rispetto al 2012), molte delle quali ordinate da tribunali islamici in base a una stretta applicazione della Sharia.

Nel 2014, al 30 giugno, almeno 421 altre esecuzioni sono state effettuate in 8 Paesi a maggioranza musulmana.

Nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014, l’impiccagione, la fucilazione e la decapitazione sono stati i metodi con cui è stata praticata “legalmente” la pena di morte nei Paesi a maggioranza musulmana, mentre non risulta siano state eseguite condanne a morte “legali” tramite lapidazione che, tra le punizioni islamiche, è la più terribile.

 

L’impiccagione e non solo

 

Tra i metodi di esecuzione di sentenze capitali nei Paesi a maggioranza musulmana, il più diffuso è l’impiccagione, la quale è preferita per gli uomini ma non risparmia le donne.

Nel 2013, 899 impiccagioni sono state effettuate in 9 Paesi a maggioranza musulmana: Afghanistan (2), Bangladesh (2), Iran (almeno 687), Iraq (almeno 172), Kuwait (5), Malesia (3), Nigeria (4), Palestina (almeno 3) e Sudan (almeno 21).

Nel 2014, al 19 giugno, almeno 398 altre impiccagioni sono state effettuate in 5 Paesi a maggioranza musulmana: Iran (almeno 342, tra cui 125 annunciate dal Governo, al 18 giugno); Iraq (almeno 46, al 7 aprile); Malesia (almeno 1); Palestina (1, al 7 maggio); Egitto (almeno 8, al 19 giugno).

L’impiccagione è spesso eseguita in pubblico e a volte combinata a pene supplementari come la fustigazione e l’amputazione degli arti prima dell’esecuzione.

 

Nel 2013, altre 20 impiccagioni sono state effettuate in 5 Paesi non musulmani: Giappone (8); Taiwan (6); Sudan del Sud (almeno 4); Botswana (1); India (1).

Nel 2014, al 30 giugno, altre 6 impiccagioni sono state effettuate in 2 Paesi: Taiwan (5) e Giappone (1).

 

L’impiccagione è il metodo preferito con cui è applicata la Sharia in Iran. L’impiccagione in versione iraniana avviene di solito tramite delle gru o piattaforme più basse per assicurare una morte più lenta e dolorosa. Come cappio è usata una robusta corda oppure un filo d’acciaio che viene posto intorno al collo in modo da stringere la laringe provocando un forte dolore e prolungando il momento della morte.

Oltre a quelle impiccate in carcere, nel 2013, sono state impiccate sulla pubblica piazza almeno 59 persone e la pratica è proseguita nel 2014, con almeno 31 esecuzioni all’8 maggio.

 

La fucilazione

 

Non propriamente una punizione islamica, la fucilazione è pure stata usata nei Paesi a maggioranza musulmana nel 2013 e nei primi mesi del 2014.

Nel 2013, almeno 52 esecuzioni tramite fucilazione sono state effettuate in 4 Paesi: Yemen (almeno 13), Indonesia (5), Somalia (almeno 27) e Arabia Saudita (7) dove sono state effettuate in alternativa alla decapitazione, il metodo tradizionale in uso nel Regno.

Nel 2014, al 25 maggio, almeno 8 fucilazioni sono state effettuate in 3 Paesi a maggioranza musulmana: Emirati Arabi Uniti (1); Somalia (almeno 6); Palestina (almeno 1).

Non è possibile indicare il numero esatto delle esecuzioni in Siria nel 2013 e nei primi mesi del 2014, a causa della guerra civile in corso e della mancanza di informazioni ufficiali fornite dalle autorità siriane.

Non risulta siano state effettuate esecuzioni legali o comminate condanne capitali in Libia nel 2013 e nei primi mesi del 2014.

Come “esecuzioni extragiudiziarie” andrebbero invece classificate le fucilazioni effettuate in Somalia dagli estremisti islamici di Al-Shabaab, in Yemen da islamisti legati ad Al-Qaeda e in Siria dal gruppo jihadista sunnita Stato Islamico dell’Iraq e del Levante.

 

Nel 2013, altre fucilazioni “legali” sono state effettuate in 3 Paesi non musulmani: Cina (numero imprecisato); Corea del Nord (almeno 17); Taiwan (6).

Nei primi sei mesi del 2014, ci sono state altre fucilazioni in 4 Paesi non musulmani: Bielorussia (almeno 2); Cina (numero imprecisato); Corea del Nord (almeno 6); Taiwan (5).

 

La decapitazione

 

La decapitazione come metodo “legale” per eseguire sentenze capitali in base alla Sharia è un’esclusiva dell’Arabia Saudita, che ha decapitato almeno 71 persone nel 2013 (altre 7 sono state fucilate) e almeno 15 persone nel 2014 (al 25 giugno).

Come “esecuzioni extragiudiziarie” andrebbero invece classificate le decapitazioni effettuate nel 2013 e nel 2014 in Somalia dagli estremisti islamici di Al-Shabaab e in Afghanistan nelle zone controllate dai Talebani.

 

La lapidazione

 

Tra le punizioni islamiche, la lapidazione è la più terribile. Il condannato è avvolto da capo a piedi in un sudario bianco e interrato. La donna è interrata fino alle ascelle, mentre l’uomo fino alla vita. Un carico di pietre è portato sul luogo e funzionari incaricati – in alcuni casi anche semplici cittadini autorizzati dalle autorità – eseguono la lapidazione. La morte deve essere lenta e dolorosa, per cui le pietre non devono essere così grandi da provocarla con uno o due colpi. Se il condannato riesce in qualche modo a sopravvivere alla lapidazione, sarà imprigionato per almeno 15 anni ma non verrà giustiziato.

La lapidazione non è una pratica del passato. Ci sono 16 Paesi in cui è prevista dalla legge o praticata di fatto. La lapidazione è una punizione legale per l’adulterio in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Mauritania, Nigeria (in un terzo dei 36 Stati del Paese), Pakistan, Qatar, Somalia, Sudan e Yemen. In alcuni Paesi, come la Mauritania e il Qatar, la lapidazione non è mai stata praticata, anche se rimane legale. In quattro dei restanti sei Paesi – Afghanistan, Iraq, Mali e Siria – la lapidazione non è legale, ma capi tribali, militanti islamici e altri la praticano in via extragiudiziaria. Nella regione di Aceh in Indonesia e in Malesia, la lapidazione è sanzionata a livello regionale, ma vietata a livello nazionale.

 

Nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014, non risultano condanne a morte “legali” eseguite tramite lapidazione.

Nell’aprile 2013, l’Iran ha reinserito la lapidazione in una precedente versione del nuovo codice penale che l’aveva omessa come pena esplicita per l’adulterio.

Nel 2013 e nel 2014, condanne alla lapidazione sono state emesse in Nigeria e negli Emirati Arabi Uniti, ma non sono state eseguite.

Il 1° maggio 2014, è entrato in vigore il nuovo Codice Penale della Sharia di Brunei Darussalam, che prevede punizioni islamiche severe, tra cui la lapidazione per adulterio.

 

Lapidazioni extra-giudiziarie sono state invece effettuate in Pakistan a opera di tribunali tribali e in Siria sotto la giurisdizione del gruppo fondamentalista Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL).

 

Il “prezzo del sangue”

 

Secondo la legge islamica, i parenti della vittima di un delitto hanno tre possibilità: esigere l’esecuzione della sentenza, risparmiare la vita dell’assassino con la benedizione di Dio oppure concedergli la grazia in cambio di un compenso in denaro, detto Diya (prezzo del sangue).

Nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014, casi relativi al “prezzo del sangue” si sono risolti col perdono o con l’esecuzione in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait e Pakistan.

La versione iraniana del “prezzo del sangue” stabilisce che per una vittima donna esso sia la metà di quello di un uomo. Inoltre, se uccide una donna, un uomo non potrà essere giustiziato, anche se condannato a morte, senza che la famiglia della donna abbia prima pagato a quella dell’assassino la metà del suo “prezzo del sangue”.

Nel settembre 2011, l’Arabia Saudita ha deciso di triplicare la diya, mantenendo però il “prezzo del sangue” per l’assassinio di una donna la metà di quello per l’uccisione di un maschio.

 

Pena di morte per blasfemia e apostasia

 

In alcuni Paesi islamici, convertire dall’Islam ad altra religione o rinunciare all’Islam è considerato apostasia ed è tecnicamente un reato capitale. Inoltre, la pena capitale è stata estesa in base alla Sharia anche ai casi di blasfemia, cioè può essere imposta a chi offende il profeta Maometto, altri profeti o le sacre scritture.

Secondo il rapporto Freedom of Thought 2013, pubblicato dalla International Humanist and Ethical Union (IHEU), il “reato” di apostasia è risultato essere punito con la morte in 12 dei più integralisti Paesi musulmani: Afghanistan, Iran, Malesia (pur contraddicendo la legge federale, i Governi degli Stati di Kelantan e Terengganu hanno approvato, rispettivamente, nel 1993 e nel 2002 leggi che rendono l’apostasia un reato capitale), Maldive, Mauritania, Nigeria (solo in dodici Stati settentrionali a maggioranza musulmana), Qatar, Arabia Saudita, Somalia, Sudan, Emirati Arabi Uniti e Yemen.

Dei 47 Paesi a maggioranza musulmana nel mondo, al massimo 5 consentono la pena capitale per blasfemia: Pakistan, Arabia Saudita, Iran, Emirati Arabi Uniti e forse Afghanistan (dove, però, la nuova Costituzione incorpora norme sui diritti umani che contraddicono norme penali che considerano la blasfemia un reato capitale).

In altri quattro Stati, militanti islamici che agiscono come autorità religiose di alcune aree applicano la pena di morte in base alla Sharia per “reati” legati alla religione: Al-Shabaab in Somalia; Boko Haram e altri islamisti in Nigeria; i Talebani in Afghanistan; il gruppo jihadista sunnita Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL) in Siria.

 

Nel 2013 e nei primi mesi del 2014, condanne a morte per apostasia, blasfemia o stregoneria sono state comminate ma non eseguite in Arabia Saudita, Iran, Pakistan e Sudan.

Come “esecuzioni extragiudiziarie” andrebbero invece classificate le esecuzioni per blasfemia effettuate in Siria dal gruppo fondamentalista Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL).

 

PENA DI MORTE NEI CONFRONTI DI MINORI

 

Applicare la pena di morte a persone che avevano meno di 18 anni al momento del reato è in aperto contrasto con quanto stabilito dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo. Quest’ultima, che tra i patti internazionali è quello che ha registrato il maggior numero di ratifiche, all’articolo 37 (a) stabilisce: “Né la pena capitale né il carcere a vita senza possibilità di rilascio devono essere stabiliti per reati commessi da persone di età inferiore a diciotto anni”.

 

Il numero di esecuzioni di autori di reato da minorenni è notevolmente aumentato nel 2013. Almeno 13 persone che avevano meno di 18 anni al momento del fatto sono state giustiziate in 3 Paesi: almeno 9 in Iran; almeno 3 in Arabia Saudita; 1 in Yemen.

Altri 11 minorenni al momento del reato sarebbero stati giustiziati in Iran nel 2014, al 10 giugno.

Nel 2012, erano stati giustiziati almeno 3 autori di reato minorenni: almeno 1 in Iran e 2 in Yemen.

Inoltre, alla fine del 2013, persone che erano minorenni al momento dei loro presunti crimini erano ancora nel braccio della morte in Nigeria e Pakistan.

Nell’aprile 2014, nelle Maldive sono entrate in vigore norme dettagliate sull’applicazione della pena di morte che la prevedono anche nei confronti di autori di reato minorenni al momento del fatto.

 

LA “GUERRA ALLA DROGA”

 

Il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici ammette un’eccezione al diritto alla vita per quei Paesi che ancora non hanno abolito la pena di morte, ma solo riguardo ai “reati più gravi”. Gli organismi delle Nazioni Unite sui diritti umani hanno dichiarato i reati di droga non ascrivibili alla categoria dei “reati più gravi”.

Nel 2011, con una “linea guida” interna, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNODC) ha chiesto al suo staff di cessare gli aiuti a un Paese se tale sostegno potrebbe facilitare le esecuzioni. Nonostante questa linea guida, la leadership dell’UNODC non ha smesso di destinare fondi a governi, in particolare quello iraniano, che li utilizzano per catturare, condannare a morte e spesso anche giustiziare presunti trafficanti di droga.

Nel 2013, la Danimarca e l’Irlanda hanno annunciato di avere interrotto il finanziamento di un programma anti-droga in Iran proprio a causa della pena di morte.

La leadership dell’UNODC non sembra essere affatto infastidita dal fatto che i suoi fondi siano utilizzati dalle autorità iraniane per impiccare “condannati per droga” a un ritmo così devastante. Il 7 marzo 2014, il capo del Consiglio per i Diritti Umani della magistratura iraniana, Mohammad Javad Larijani, ha dichiarato che l’incremento delle esecuzioni capitali nella Repubblica Islamica dovrebbe essere considerato come un “indicatore positivo dei successi iraniani” e “un grande servizio all’umanità”. L’11 marzo 2014, il capo dell’agenzia ONU contro la droga ha elogiato la lotta dell’Iran contro il narcotraffico. Yury Fedotov, Direttore esecutivo dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNODC), ha detto che “l’Iran svolge un ruolo molto attivo nella lotta contro le droghe illecite”. Fedotov ha detto chiaro che l’UNODC non sta prendendo in considerazione di arrestare il sostegno all’Iran. “Non credo che la comunità internazionale debba acconsentire a questo perché significherebbe, come possibile reazione da parte dell’Iran, che tutte queste enormi quantità di droga, che ora sono sequestrate dagli iraniani, inonderebbero liberamente l’Europa.”

 

Un’altra questione riguarda la presenza, in molti Stati, di leggi che prescrivono la condanna a morte obbligatoria per alcuni reati di droga. L’obbligatorietà della pena capitale, che non tiene conto del merito specifico di ogni singolo caso, è stata fortemente criticata dalle autorità internazionali a tutela dei diritti umani.

I Paesi o territori che nel mondo mantengono leggi che prevedono la pena di morte per reati legati alla droga sono 33, dei quali 12 la prevedono obbligatoriamente in alcuni casi particolari: Brunei Darussalam, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait, Laos, Malesia, Oman, Siria, Sudan, Sudan del Sud e Yemen.

 

L’ideologia proibizionista in materia di droga ha continuato a dare un contributo consistente alla pratica della pena di morte anche nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014.

Nel 2013, nel nome della guerra alla droga, sono state effettuate almeno 355 esecuzioni in 5 Paesi: Arabia Saudita (almeno 24); Cina (numero sconosciuto); Indonesia (2); Iran (almeno 328); Malesia (almeno 1). Mentre condanne a morte per droga sono state pronunciate, anche se non eseguite, in 10 Stati: Egitto, Emirati Arabi Uniti, Laos, Pakistan, Qatar, Singapore, Sri Lanka, Thailandia, Vietnam e Yemen.

Nel 2014, al 23 giugno, almeno 193 esecuzioni per droga sono state effettuate in 3 Paesi: Arabia Saudita (almeno 3); Cina (numero sconosciuto); Iran (almeno 190, di cui 81 annunciate dal Governo).

 

LA “GUERRA AL TERRORISMO”

 

In nome della lotta al terrorismo, Paesi autoritari e illiberali hanno continuato nella violazione dei diritti umani al proprio interno e, in alcuni casi, hanno giustiziato e perseguitato persone in realtà coinvolte solo nella opposizione pacifica o in attività sgradite al regime.

Nel 2013, almeno 223 esecuzioni per fatti di “terrorismo” o per crimini violenti di natura politica sono state effettuate in 6 Paesi: Bangladesh (1), Iran (almeno 33), Iraq (almeno 168), India (1), Somalia (almeno 17) e Sudan (almeno 3). È probabile che esecuzioni “legali” per terrorismo siano avvenute anche in Siria, anche se non è possibile confermarlo.

Centinaia di condanne a morte sono state pronunciate anche se non eseguite in Arabia Saudita, Algeria, Egitto, Libano e Pakistan.

Tra i condannati a morte o giustiziati per “terrorismo” in Iran potrebbero esserci in realtà anche oppositori politici, in particolare appartenenti alle minoranze etniche e religiose iraniane: azeri, kurdi, baluci e ahwazi. Accusati di essere mohareb, cioè nemici di Allah, gli arrestati sono di solito sottoposti a un processo rapido e severo che si risolve spesso con la pena di morte. Oltre alla morte, la punizione per Moharebeh è l’amputazione della mano destra e del piede sinistro, secondo il codice penale iraniano.

Nel 2014, al 7 aprile, l’Iraq ha giustiziato almeno 46 persone, la gran parte per fatti di terrorismo. Nel giugno 2014, la Cina ha giustiziato 13 Uiguri per “attacchi terroristici” nella Regione dello Xinjiang.

Nel 2014, in Egitto, sono stati condannati a morte centinaia di sostenitori del deposto Presidente Mohamed Morsi.

 

PENA DI MORTE PER REATI NON VIOLENTI, POLITICI E DI OPINIONE

 

Secondo il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, “nei Paesi in cui la pena di morte non è stata abolita, una sentenza capitale può essere comminata soltanto per i delitti più gravi”. Il limite dei “reati più gravi” per l’applicazione legittima della pena di morte è sostenuto anche dagli organismi politici delle Nazioni Unite, i quali chiariscono che per “reati più gravi” s’intendono solo quelli “con conseguenze letali o estremamente gravi”.

Ciò nonostante, nel 2013, condanne a morte o esecuzioni per reati non violenti o per motivi essenzialmente politici si sono verificate in Cina (numero imprecisato), Iran (almeno 29 esecuzioni) e Corea del Nord (almeno 17 esecuzioni).

Nel 2014, al 12 giugno, esecuzioni per reati non violenti o per motivi essenzialmente politici si sono verificate in Cina (numero imprecisato), Iran (almeno 24 esecuzioni) e Corea del Nord (almeno 2 esecuzioni).

 

LA PENA DI MORTE “TOP SECRET”

 

Molti Paesi, per lo più autoritari, non forniscono statistiche ufficiali sull’applicazione della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.

In alcuni casi, come la Cina e il Vietnam, la questione è considerata un segreto di Stato e le notizie di esecuzioni riportate dai giornali locali o da fonti indipendenti rappresentano una minima parte del fenomeno.

Anche in Bielorussia vige il segreto di Stato, retaggio della tradizione sovietica, e le notizie sulle esecuzioni filtrano dalle prigioni tramite parenti dei giustiziati o organizzazioni internazionali molto tempo dopo la data dell’esecuzione.

In Iran, dove pure non esiste segreto di Stato sulla pena di morte, le sole informazioni disponibili sulle esecuzioni sono tratte da notizie selezionate dal regime e uscite su media statali o da fonti ufficiose o indipendenti.

Ci sono poi situazioni in cui le esecuzioni sono tenute assolutamente nascoste e le notizie non filtrano nemmeno dai giornali locali. È il caso di Egitto, Corea del Nord, Malesia e Siria.

In Iraq le esecuzioni segrete non si sono mai fermate, nemmeno sotto il governo di Nouri al-Maliki.

Vi sono, poi, Paesi come Arabia Saudita e Sudan del Sud, dove le esecuzioni sono di dominio pubblico solo una volta che sono state effettuate, mentre familiari, avvocati e gli stessi condannati a morte sono tenuti all’oscuro di tutto.

 

Vi sono, però, anche Paesi considerati “democratici”, come Giappone, India, Indonesia, Taiwan e gli stessi Stati Uniti, dove il sistema della pena capitale è per molti aspetti coperto da un velo di segretezza.

Negli Stati Uniti, viste le ormai quasi insormontabili difficoltà a reperire i farmaci mortali sul normale mercato nazionale e internazionale, le amministrazioni penitenziarie hanno pensato di rivolgersi a laboratori artigianali, quelli che negli USA si chiamano “Compounding Pharmacies”. Il passaggio a questo nuovo tipo di “rifornimento” è stato accompagnato da una serie di leggi sulla segretezza (Secrecy Laws) che consentono alle amministrazioni penitenziarie di non rispondere a giornalisti, avvocati o associazioni per i diritti umani che chiedono informazioni sui nomi dei fornitori e proteggerli dal controllo pubblico esercitato dagli oppositori della pena capitale. Dei 32 Stati che utilizzano ancora l’iniezione letale, almeno 11 – Arkansas, Colorado, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi, Missouri, Oklahoma, South Dakota, Tennessee e Texas – hanno adottato leggi sul segreto di Stato che impediscono al pubblico o ai detenuti di conoscere la fonte dei farmaci di esecuzione.

 

LA “CIVILTÀ” DELL’INIEZIONE LETALE

 

Sempre più la pena di morte è vista nel mondo come una forma di tortura, dal momento che infligge una grave sofferenza mentale e fisica ai condannati a morte.

Oggi, ci sono quattro Paesi che usano l’iniezione letale come metodo di esecuzione: Stati Uniti, Cina, Thailandia e Vietnam.

Altri tre Paesi – Taiwan, Maldive e Papua Nuova Guinea – prevedono attualmente l’esecuzione per iniezione letale, ma non hanno ancora giustiziato nessuno con quel metodo.

Le esecuzioni per iniezione letale sono state effettuate anche in Guatemala e Filippine, ma sono ormai fuori uso da quando questi due Paesi hanno, rispettivamente, istituito una moratoria ufficiale sulle esecuzioni e abolito la pena di morte.

 

Nel 2013, l’iniezione letale per eseguire la pena di morte è stata utilizzata in 3 Paesi: Stati Uniti (39 esecuzioni); Cina (numero imprecisato di esecuzioni) e Vietnam (almeno 8 esecuzioni).

Nei primi sei mesi del 2014, l’iniezione letale è stata praticata in almeno 2 Paesi: Stati Uniti (23 esecuzioni, al 30 giugno) e Cina (numero imprecisato di esecuzioni, dal momento che i dati sulla pena di morte sono coperti dal segreto di Stato).

 

I Paesi che hanno deciso di passare dalla sedia elettrica, l’impiccagione o la fucilazione alla iniezione letale come metodo di esecuzione, hanno presentato questa “riforma” come una conquista di civiltà e un modo più umano e indolore per giustiziare i condannati a morte. La realtà è diversa.

Il 29 aprile 2014, l’Oklahoma ha tentato di giustiziare Clayton Lockett con l’iniezione letale, utilizzando una combinazione di tre farmaci che non erano stati mai usati nello Stato. Durante l’esecuzione, Lockett è andato violentemente in convulsione, ha cercato di sollevare la testa dopo che un medico lo aveva dichiarato privo di sensi, poi è morto di un attacco di cuore 43 minuti dopo l’inizio della procedura. Il 2 maggio, il Presidente Barack Obama ha definito l’esecuzione mal riuscita in Oklahoma “profondamente preoccupante “ e ha chiesto al Procuratore Generale di analizzare tutti i problemi che circondano l’applicazione della pena di morte negli Stati Uniti.

 

ESTRADIZIONE E PENA DI MORTE

 

Molti Paesi abolizionisti, tra cui tutti i membri dell’Unione Europea, in base alle proprie leggi interne e/o ai patti internazionali che hanno sottoscritto, sono impegnati a non estradare persone sospettate di reati capitali in Paesi dove rischiano di essere condannate a morte o giustiziate. Alcuni di loro hanno considerato tale impegno non proprio tassativo.

 

ANALISI DEI DATI DEL RAPPORTO 2014 E OBIETTIVI DI NESSUNO TOCCHI CAINO

 

Come abbiamo visto emergere dai dati del Rapporto 2014 di Nessuno tocchi Caino, l’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre quindici anni, si è confermata nel 2013 e nei primi sei mesi del 2014.

Dalla fondazione nel 1993 di Nessuno tocchi Caino a oggi, ben 64 dei 97 Paesi membri dell’ONU allora mantenitori della pena di morte hanno smesso di praticarla, 22 dei quali lo hanno fatto dal 2006, cioè dopo il rilancio dell’iniziativa pro-moratoria al Palazzo di Vetro.

Il lieve aumento delle esecuzioni nel 2013 rispetto al 2012 si giustifica con l’incremento registrato in Iran e in Iraq. Anche se la Cina, nel 2013 come negli ultimi anni, si è classificata al primo posto per numero di esecuzioni in assoluto, è stato l’Iran il primatista della pena capitale nel mondo se si considera il numero di abitanti.

Mentre in Cina il numero delle esecuzioni – circa 3.000 nel 2013, più o meno come nel 2012 – registra un calo del 50% rispetto al 2007, cioè da quando è entrata in vigore la riforma in base alla quale ogni condanna a morte emessa da tribunali di grado inferiore deve essere rivista dalla Corte Suprema, in Iran il numero delle esecuzioni nel 2013 è stato il più alto in più di 15 anni, ed è nettamente aumentato proprio a partire dall’estate del 2013, quando Hassan Rohani è stato eletto Presidente della Repubblica Islamica, inducendo molti osservatori, alcuni difensori dei diritti umani e la comunità internazionale a illudersi su un radicale cambio di registro del nuovo Governo per quanto riguarda la pratica della pena di morte e non solo. Secondo Iran Human Rights, almeno 870 persone sono state giustiziate nel corso del primo anno dopo le elezioni presidenziali (dal 1° luglio 2013 al 30 giugno 2014).

L’Iraq, da parte sua, sembra aver adottato il “modello dei Mullah” in tutto e per tutto, quindi anche in materia di pena di morte. Nel 2013, è stato registrato il numero di gran lunga più alto di esecuzioni dall’invasione USA nel 2003 e la ripresa delle esecuzioni nel 2005. Da allora, sono state eseguite almeno 665 condanne a morte, almeno 172 delle quali nel solo 2013, quasi tutte per terrorismo. Le autorità irachene insistono sul fatto che la pena capitale è prevista dall’Islam ed è un modo efficace per frenare la violenza, nonostante che il numero di condannati a morte impiccati, spesso in gruppi, nel 2013 non abbia avuto alcun effetto a fronte dell’escalation violenta registrata in Iraq nel corso dell’anno – 6.300 vittime di attacchi terroristici secondo la AFP –, il suo peggior periodo di violenza dopo il picco raggiunto nel 2006-2007 che aveva provocato decine di migliaia di morti.

 

Ma il dato più negativo che emerge dal Rapporto 2014 riguarda le cosiddette democrazie liberali. Nel 2011 erano stati solo 2 i Paesi democratici a praticare la pena di morte, Stati Uniti e Taiwan, nel 2012 sono diventati 5 con Botswana, Giappone e India, ai quali si è aggiunta l’Indonesia che ha ripreso le esecuzioni nel 2013 dopo una moratoria di fatto che durava dal 2008.

Mentre negli Stati Uniti si registra un’evidente e ormai irreversibile tendenza all’abolizione della pena di morte con sei Stati che l’hanno cancellata negli ultimi sei anni, negli altri Paesi democratici il dato è più preoccupante perché segna una tendenza opposta.

Ma il dato forse ancor più preoccupante è che in tutti questi Paesi considerati “democratici”, Stati Uniti compresi, il sistema della pena capitale, per molti aspetti, s’è rivelato essere sempre più coperto da un velo di segretezza.

In Giappone la segretezza e l’incertezza ingiustificate che circondano la pratica della pena di morte ha continuato a essere mantenuta nelle ultime esecuzioni di condannati a morte, due dei quali – Keiki Kano e Kaoru Kobayashi – sono stati giustiziati nel febbraio 2013 nonostante si preparassero a chiedere nuovi processi, in violazione degli standard internazionali sull’uso della pena di morte.

In India, le esecuzioni segrete di prigionieri nel braccio della morte sono diventate una questione sempre più all’ordine del giorno dopo le impiccagioni del novembre 2012 e del febbraio 2013, che hanno interrotto una moratoria di fatto che durava dal 2004 e che sono state effettuate in una cornice di massima segretezza. I condannati a morte e i loro avvocati e famigliari non sono stati informati in anticipo della loro imminente esecuzione, precludendo possibili ricorsi a un giudice in cerca di un ordine di sospensione dell’esecuzione.

Anche in Indonesia le esecuzioni sono di dominio pubblico solo una volta che sono state effettuate. Il condannato di solito riceve la notizia della sua esecuzione soltanto 72 ore prima, ma non risulta che le famiglie o i rappresentanti legali dei cinque individui giustiziati nel 2013 siano stati informati in anticipo, impedendo in tal modo appelli dell’ultimo minuto per una sospensione dell’esecuzione.

Anche a Taiwan le esecuzioni sono effettuate in segreto: nessuno è informato prima, compresi i condannati e i loro familiari, i quali lo sanno solo quando sono invitati a recuperare il corpo dalla camera mortuaria.

Infine, negli Stati Uniti, nel pur decrescente numero di Stati della Federazione che mantengono la pena capitale, si sta facendo di tutto per occultare i modi con cui è praticata. La maggiore segretezza intorno ai protocolli dell’iniezione letale è solo l’ultima tattica che legislatori e autorità carcerarie stanno mettendo in atto in tutto il Paese per impedire agli avvocati difensori di fare ricorsi contro i protocolli di esecuzione e alle associazioni abolizioniste di fare pressione sulle ditte farmaceutiche per bloccare la vendita e l’uso letale dei loro prodotti da parte delle amministrazioni penitenziarie.

 

Nel dicembre 2014, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite voterà una nuova Risoluzione – la quinta – che invita gli Stati membri a stabilire una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell’abolizione della pratica.

Sulla Risoluzione del 2012, Ciad, Repubblica Centrafricana, Sierra Leone e Tunisia, che si erano astenuti o erano assenti nel 2010, per la prima volta hanno votato a favore. I primi tre Paesi erano stati obiettivo di una missione di Nessuno tocchi Caino e del Partito Radicale volta a ottenere proprio il loro voto a favore della Risoluzione pro-moratoria.

L’obiettivo di Nessuno tocchi Caino per la prossima Risoluzione è duplice: rafforzare il testo e far aumentare il numero dei cosponsor e dei voti a favore.

Per quanto riguarda il testo della nuova Risoluzione, Nessuno tocchi Caino rilancia la proposta al Segretario Generale dell’ONU di istituire la figura di un Inviato Speciale che abbia il compito non solo di monitorare la situazione ed esigere una maggiore trasparenza e limiti più restrittivi nel sistema della pena capitale, ma anche di continuare a persuadere chi ancora la pratica ad adottare la linea stabilita dalle Nazioni Unite: “moratoria delle esecuzioni, in vista dell’abolizione definitiva della pena di morte”.

Anche per trovare nuovi cosponsor e voti a favore della Risoluzione, Nessuno tocchi Caino ha già organizzato o promosso due importanti conferenze in Africa: la prima si è svolta il 13 e 14 gennaio scorso a Freetown, in Sierra Leone, con il sostegno finanziario del Ministero degli Esteri della Norvegia; la seconda si è svolta il 2-4 luglio a Cotonou, in Benin, convocata dalla Commissione Africana per i Diritti Umani e dei Popoli e dal Governo beninese.

In vista del voto di dicembre al Palazzo di Vetro, Nessuno tocchi Caino ha in programma di compiere nuove missioni in alcuni Paesi africani – tra cui Comore, Ghana, Guinea Equatoriale, Liberia, Niger, Senegal, Zambia e Zimbabwecon il duplice obiettivo di sostenere il processo abolizionista interno e di sensibilizzare i Governi a sostenere la Risoluzione ONU.