SINTESI DEI FATTI PIU IMPORTANTI 2016

05 Settembre 2018 :

SINTESI DEI FATTI PIÙ IMPORTANTI DEL 2016

LA SITUAZIONE A OGGI

Sviluppi sulla pena di morte nel mondo

L’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre quindici anni, si è confermata nel 2016.
I Paesi o i territori che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica sono oggi 160. Di questi, i Paesi totalmente abolizionisti sono 105; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 6; quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni sono 6; i Paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte, sono 43.
I Paesi mantenitori della pena di morte sono progressivamente diminuiti nel corso degli ultimi dieci anni: nel 2016, sono scesi a 38, rispetto ai 54 nel 2005..

Esecuzioni

Nel 2016, i Paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali sono stati 23, rispetto ai 25 del 2015.
Nel 2016, le esecuzioni sono state almeno 3.135, a fronte delle almeno 4.040 del 2015, mentre erano state almeno 5.735 nel 2008. Il significativo calo delle esecuzioni nel 2016 rispetto al 2015 si spiega principalmente con la riduzione registrata in Cina, in Iran ed in Pakistan.
Nel 2016, non si sono registrate esecuzioni in 5 Paesi –  Chad, India, Giordania, Oman e Emirati Arabi Uniti – che le avevano effettuate nel 2015.
Viceversa, 4 Paesi che non avevano effettuato esecuzioni nel 2015, le hanno riprese nel 2016: Autorità Palestinese (3) Bielorussia (4), Bostwana (1) e Nigeria (3). Il Bahrein, ha giustiziato 3 persone nel 2017, dopo una sospensione che durava dal 2010 ed il Kuwait 7, dopo una sospensione che durava dal 2013.  
Anche se non è possibile confermarlo, è probabile che esecuzioni “legali” siano avvenute anche in Libia, Siria e in Yemen nel 2016.

Quadro regionale

Ancora una volta, l’Asia si conferma essere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. Se stimiamo che in Cina vi sono state almeno 2.000 esecuzioni, il dato complessivo del 2016 nel continente asiatico corrisponde ad almeno 3.073 esecuzioni (il 98%), in calo rispetto al 2015 quando erano state almeno 3.946.
Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Stati Uniti, l’unico Paese del continente che ha compiuto esecuzioni nel 2016 (20). In molti Paesi dei Caraibi, non sono state comminate nuove condanne a morte e i bracci della morte erano ancora vuoti alla fine dell’anno.
In Africa, nel 2016, la pena di morte è stata praticata in 6 Paesi (1 in più rispetto al 2015) e si sono registrate almeno 38 esecuzioni, rispetto alle 66 del 2015: Botswana (1), Egitto (almeno 16), Nigeria (3), Somalia (almeno 14), Sudan del Sud (almeno 2) e Sudan (2).
Nel 2016, non si sono registrate esecuzioni in Ciad che le aveva effettuate nel 2015 mentre sono riprese in Botswana e in Nigeria dove non se ne registravano dal 2013.
In Europa, l’unica eccezione in un continente altrimenti totalmente libero dalla pena di morte è rappresentata dalla Bielorussia, un Paese che negli ultimi anni ha continuato a giustiziare suoi cittadini. Nel 2016 le esecuzioni sono sate almeno 4, mentre non se ne erano registrate nel 2015.
Per quanto riguarda il resto dell’Europa, tutti gli altri Paesi l’hanno abolita in tutte le circostanze, mentre la Russia rispetta una moratoria legale delle esecuzioni.

Abolizioni legali, di fatto e moratorie

Nel 2016, 2 Paesi hanno rafforzato ulteriormente il fronte abolizionista: Nauru e la Guinea divenuti completamente abolizionisti, quest’ultima concellandola anche dai codici penali militari nel 2017. Altri 4 Paesi hanno ulteriormente rafforzato la loro posizione abolizionista: Benin, Cipro, Repubblica Dominicana e Togo.
Negli Stati Uniti i Governatori di quattro Stati hanno sospeso “fino alla fine del loro mandato” le esecuzioni a causa degli evidenti difetti che connotano il sistema capitale: Colorado (dal 2013, ribadita nel 2015 per 4 anni), Oregon (dal 2011), Pennsylvania (dal 2015) e Washington (dal 2014, ribadita dal governatore Inslee il 29 dicembre 2016).

Verso l’abolizione

Nel 2016, ulteriori passi politici o legislativi verso l’abolizione o la moratoria di fatto della pena capitale si sono verificati in 43 Paesi.
In altri 6 Paesi – Ciad, Guatemala, Guinea Equatoriale, Myanmar, Tailandia e Uganda  – sono state annunciate o proposte leggi per l’abolizione della pena di morte nella Costituzione o nei codici penali, o se ne è limitato l’uso per alcuni reati capitali.
Altri 3 Paesi – Niger, Sierra Leone e Tagikistan – hanno accettato raccomandazioni o annunciato passi verso l’abolizione della pena di morte in sede di Revisione Periodica Universale del Consiglio dei diritti umani dell’ONU.
Altri 15 Paesi hanno confermato la loro politica di moratoria di fatto sulla pena di morte o sulle esecuzioni in atto da molti anni: Burkina Faso, Corea del Sud, Comore, Eritrea, Etiopia, Guyana, Libano, Malawi, Papua Nuova Guinea, Qatar, Repubblica Centrafricana, Swaziland, Tanzania, Tunisia e Zambia.
Nella Regione dei Caraibi, in 8 Paesi – Antigua e Barbuda, Bahamas, Belize, Cuba, Dominica, Giamaica, Guatemala e Saint Lucia – non sono state comminate nuove condanne a morte e i bracci della morte erano ancora vuoti alla fine del 2016. In altri 3 Paesi della Regione dei Caraibi –Grenada, Saint Kitts e Nevis e Saint Vincent e Grenadine – non sono state comminate nuove condanne a morte e vi era un solo condannato nei bracci della morte.
Inoltre, commutazioni collettive di pene capitali o sospensioni di esecuzioni a tempo indeterminato sono state decise in 7 Paesi: Ghana, Kenya, Marocco, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sri Lanka e Zimbabwe. Significativi atti di clemenza sono stati adottati anche in Paesi che hanno adottato leggi che aboliscono la pena di morte per alcuni reati come Myanmar e Tailandia.
In India, la Corte Suprema indiana ha continuato a dare il suo contributo per ridurre al minimo l’uso della pena di morte.

La sesta Risoluzione ONU per la Moratoria universale delle esecuzioni capitali

Il 19 dicembre 2016, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la sua sesta Risoluzione dal 2007, che invita gli Stati a stabilire una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell’abolizione della pratica.
La nuova Risoluzione è stata adottata con 117 voti a favore (come nel 2014), 40 contrari (due in più rispetto ai 38 del 2014), mentre gli astenuti sono stati 31 (3 in meno rispetto al 2014) e 5 gli assenti al momento del voto (uno in più rispetto al 2014).
Nuovi voti a favore sono venuti da Guinea, Malawi, Namibia, Isole Salomone, Sri Lanka e Swaziland. Come ulteriore segno positivo, lo Zimbabwe si è spostato dal voto contro all'astensione. Purtroppo, il Burundi e il Sudan del Sud si sono spostati dal voto a favore a quello contro, mentre la Guinea Equatoriale, il Niger, le Filippine e le Seychelles sono passate da un voto favorevole all'astensione. Anche le Maldive si sono mosse dall'astensione per votare contro. Alcuni Stati non hanno votato per vari motivi, contribuendo al risultato finale: la Repubblica Democratica del Congo, il Gambia e il Senegal sono passati dall'astensione a non essere presenti, mentre il Ruanda, che ha sempre votato a favore, non era presente.
I voti a favore per la prima volta dello Swaziland e del Malawi sono stati il frutto di una missione di Nessuno tocchi Caino, grazie al sostegno del Ministero degli Esteri italiano, volta proprio ad ottenere un voto favorevole all'Assemblea Generale, mentre nel 2014 lo Zimbabwe era stato un paese target di un’altra missione di Nessuno tocchi Caino.
Nonostante il testo contenga un emendamento, votato in terza commissione a novembre su proposta di Singapore, che fa riferimento alle prerogative degli Stati di decidere quale tipo di pena comminare di fronte ai reati più gravi, sono decisamente più rilevanti i passi positivi registrati nel rafforzamento del testo. La Risoluzione è stata rafforzata nella parte in cui chiede agli Stati di “rendere disponibili le informazioni rilevanti circa l’uso della pena di morte” (tra l’altro, disaggregando per sesso, età e razza i dati sulla pratica della pena di morte oltre a fornire anche il numero di detenuti nel braccio della morte e le informazioni sulle esecuzioni fissate). L’Assemblea Generale per la prima volta ha riconosciuto il ruolo che svolgono gli organismi nazionali sui diritti umani a sostegno di dibattiti locali, nazionali e regionali sulla pena di morte, così come per la prima volta ha evidenziato la necessità che chi rischia la pena di morte sia trattato con umanità e rispetto della sua dignità secondo quanto sancisce il diritto internazionale in materia di diritti umani.
La conferma dei voti a favore di una moratoria universale delle esecuzioni capitali è importantissima in un momento in cui, di fronte all’emergenza terrorismo, si rischia di abdicare ai principi dello Stato di Diritto invece di rafforzarli.

Ripristino della pena di morte e ripresa delle esecuzioni

Nel 2016, 4 Paesi che non avevano effettuato esecuzioni nel 2015, le hanno riprese nel 2016: Bielorussia (4), Autorità Palestinese (3), Nigeria (3) e Botswana (1). Nei primi sei mesi del 2017, il Bahrein ha ripreso le esecuzioni (3) dopo sette anni di sospensione ed il Kuwait (7) dopo una sospensione che durava dal 2013.
Anche se non è possibile confermarlo, è probabile che esecuzioni “legali” siano avvenute anche in Libia, Siria nel 2016 e in Yemen.
Annunci di reintroduzione della pena di morte si sono registrati nelle Filippine ed in Turchia.
Sul fronte opposto, non si sono registrate esecuzioni in 5 Paesi –  Ciad, India, Giordania, Oman e Emirati Arabi Uniti – che le avevano effettuate nel 2015.

LA PENA DI MORTE NEI PAESI ILLIBERALI

I primi paesi boia del 2016 (Cina, Iran e Arabia Saudita)

Dei 38 mantenitori della pena di morte, 32 sono Paesi dittatoriali, autoritari o parzialmente liberi. In 19 di questi Paesi, nel 2016, sono state compiute almeno 3.110 esecuzioni, il 99% del totale mondiale.
Un Paese solo, la Cina, ne ha effettuate almeno 2.000, circa il 64% del totale mondiale; l’Iran ne ha effettuate almeno 530; l’Arabia Saudita almeno 154; il Vietnam almeno 100; l’Iraq almeno 92; il Pakistan 87; la Corea del Nord almeno 70; l’Egitto almeno 16; la Somalia almeno 14; il Bangladesh 10; la Malesia almeno 9; l’Afghanistan 6; la Bielorussia 4; Singapore 4; l’Indonesia 4; la Nigeria 3; la Palestina (Striscia di Gaza), 3; il Sudan del Sud almeno 2; il Sudan 2.
È probabile che esecuzioni “legali” siano avvenute anche in Libia, Siria e in Yemen nel 2016.
Molti di questi Paesi non forniscono statistiche ufficiali sulla pratica della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.
A ben vedere, in tutti questi Paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.
Sul terribile podio dei primi tre Paesi che nel 2016 hanno compiuto più esecuzioni nel mondo figurano tre Paesi autoritari: Cina, Iran e Arabia Saudita.

Cina, primatista di esecuzioni, anche se in netta diminuzione

Anche se la pena di morte continua a essere considerata in Cina un segreto di Stato, negli ultimi anni si sono succedute notizie, anche di fonte ufficiale, in base alle quali condanne a morte ed esecuzioni sarebbero via via diminuite rispetto all’anno precedente.
Secondo le stime della Dui Hua Foundation, un’organizzazione non governativa per i diritti umani con sede negli Stati Uniti, nel 2016, il paese ha eseguito circa 2.000 condanne a morte.
Questo dato rappresenta comunque un calo di un terzo rispetto alle circa 3.000 esecuzioni del 2012 e un calo ancor più significativo rispetto alle 6.500 nel 2007 e alle 12.000 del 2002.
Nell’agosto 2015, la Cina ha modificato il codice penale, eliminando la pena di morte per nove reati minori. L’eliminazione della pena di morte per questi nove reati incide poco e nulla sulla pratica della pena capitale in Cina, che si concentra in gran parte su casi di omicidio, stupro, rapina e reati di droga. Tuttavia, mostra che il Governo continua a fare passi in avanti verso la graduale abolizione.

Iran, cala il numero delle esecuzioni

La Cina effettua il maggior numero di esecuzioni ogni anno, ma l’Iran mette a morte più persone pro capite di qualsiasi altro Paese.
L’elezione di Hassan Rouhani come Presidente della Repubblica Islamica il 14 giugno 2013 e la sua riconferma alle elezioni del 19 maggio 2017, hanno portato molti osservatori, alcuni difensori dei diritti umani e la comunità internazionale a essere ottimisti. Tuttavia, il suo Governo non ha cambiato approccio per quanto riguarda l’applicazione della pena di morte; anzi, il tasso di esecuzioni è nettamente aumentato a partire dall’estate del 2013.
Almeno 2.744 prigionieri sono stati giustiziati in Iran dall’inizio della presidenza di Rouhani (tra il 1° luglio 2013 e il 31 dicembre 2016). Dal 1 luglio 2013 al 31 decembre 2013 le esecuzioni sono state almeno 444 esecuzioni, nel 2014 sono state 800 e nel 2015 970. Nel 2016 le esecuzioni sono state almeno 530, un 45,4% in meno rispetto l’anno precedente e il 34% in meno rispetto a 2014.
Anche se il numero di esecuzioni negli ultimi due anni è significativamente inferiore rispetto a quello degli anni precedenti, l’Iran rimane nel 2016 il paese con il più alto numero di esecuzioni pro capite.
Delle 530 esecuzioni del 2016, 194 esecuzioni (36%) sono state riportate da fonti ufficiali iraniane (siti web della magistratura, televisione nazionale, agenzie di stampa e giornali statali); 336 casi (64%) inclusi nei dati del 2016 sono stati segnalati da fonti non ufficiali (organizzazioni non governative per i diritti umani o altre fonti interne iraniane). Il numero effettivo delle esecuzioni è probabilmente molto superiore ai dati forniti nel Rapporto di Nessuno tocchi Caino.
I reati che hanno motivato le condanne a morte sono suddivisi come segue in termini di frequenza.
Traffico di droga: 309 esecuzioni (58,3%), di cui 72 ufficiali; omicidio: 132 (24,9%), di cui 65 ufficiali; stupro: 36 (6,7%), di cui 33 ufficiali; reati di “terrorismo” e moharebeh (fare guerra a Dio), “corruzione in terra”: 25 (4,7%), di cui 24 ufficiali; rapina, estorsione, reati di natura politica e nonviolenta: 7 (1,3%), di cui 4 ufficiali. In almeno 21 altri casi (3,9%), non sono stati specificati i reati per i quali i detenuti sono stati trovati colpevoli.

Arabia Saudita, ondata di esecuzioni dalla fine del regno di Re Abdullah

Nel 2016, l’Arabia Saudita ha giustiziato almeno 154 persone, decapitandone 150 e fucilandone altre 4. Dei giustiziati, 3 erano donne e 151 uomini; 118 cittadini sauditi e gli altri stranieri: uno del Bangladesh, uno del Ciad, uno dell’Eritrea, uno iracheno, uno nigeriano, uno del Qatar, un siriano, tre egiziani, tre etiopi (di cui due donne), quattro giordani, nove filippini e dieci yemeniti. La maggioranza dei giustiziati era stata condannata per omicidio (83), terrorismo (47), reati legati alla droga (22), uno per stupro e uno per stupro di minore.
Nel 2015, l’Arabia Saudita aveva decapitato almeno 159 condannati a morte.
Almeno 40 persone sono state condannate a morte nel 2016.
L’Arabia Saudita aveva in passato un numero di esecuzioni tra i più alti al mondo – il record era stato stabilito nel 1995 con 191 esecuzioni –, ma negli ultimi anni si era registrato un sensibile calo, dovuto anche a qualche piccola riforma nel sistema penale. La nuova ondata di esecuzioni è iniziata verso la fine del regno di Re Abdullah, morto il 23 gennaio 2015, accelerando sotto il suo successore Re Salman, che ha adottato una politica estera più aggressiva e nel mese di aprile ha promosso il suo potente Ministro dell’Interno Mohammed bin Nayef come principe ereditario ed erede al trono. Alcuni diplomatici a Riad hanno detto che le riforme giudiziarie, tra cui la nomina di più giudici, hanno permesso di trattare un arretrato di casi di ricorso, portando in poco tempo a un aumento delle esecuzioni. Altri hanno sostenuto che l’instabilità della regione può aver indotto i giudici sauditi a imporre pene più severe.

DEMOCRAZIA E PENA DI MORTE

Dei 38 Paesi mantenitori della pena capitale, sono solo 6 quelli che possiamo definire di democrazia liberale, con ciò considerando non solo il sistema politico del Paese, ma anche il sistema dei diritti umani, il rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello Stato di diritto.
Le democrazie liberali che nel 2016 hanno praticato la pena di morte sono state 3 e hanno effettuato in tutto 25 esecuzioni, lo 0,8% del totale mondiale: Stati Uniti (20), Giappone (3), Bostwana (1), Taiwan (1). Nel 2016 erano state 4 (Stati Uniti, Taiwan, Giappone e India) e avevano effettuato in tutto 38 esecuzioni.
In molti di questi Paesi considerati “democratici”, il sistema della pena capitale è per molti aspetti anche coperto da un velo di segretezza.

LA PENA DI MORTE NEI PAESI MUSULMANI

Dei 47 Paesi e territori a maggioranza musulmana nel mondo, 24 possono essere considerati a vario titolo abolizionisti, mentre i mantenitori della pena di morte sono 23, dei quali 18 hanno nei loro ordinamenti giuridici richiami espliciti alla Sharia.
Comunque, il problema non è il Corano, perché non tutti i Paesi islamici che a esso si ispirano praticano la pena di morte o fanno di quel testo il proprio codice penale, civile o, addirittura, la propria legge fondamentale. Il problema è la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali o autoritari al fine di impedire qualsiasi cambiamento democratico.
Nel 2016, almeno 930 esecuzioni, contro le almeno 1.579 esecuzioni del 2015, sono state effettuate in 13 Paesi a maggioranza musulmana (erano stati 16 nel 2015), molte delle quali ordinate da tribunali islamici in base a una stretta applicazione della Sharia.
L’impiccagione, la fucilazione e la decapitazione sono stati i metodi con cui è stata praticata “legalmente” la pena di morte nei Paesi a maggioranza musulmana, mentre non risulta siano state eseguite condanne a morte “legali” tramite lapidazione che, tra le punizioni islamiche, è la più terribile.

L’impiccagione e non solo

Tra i metodi di esecuzione di sentenze capitali nei Paesi a maggioranza musulmana, il più diffuso è l’impiccagione, la quale è preferita per gli uomini ma non risparmia le donne.
Nel 2016, 756  impiccagioni, contro le 1.360 del 2015,  sono state effettuate in 10 Paesi a maggioranza musulmana: Afghanistan (6), Bangladesh (10), Egitto (almeno 16), Iran (almeno 530), Iraq (almeno 92), Malesia almeno (9), Nigeria (3), Pakistan (almeno 87) Palestina (almeno 1, Striscia di Gaza) e Sudan (2).
È probabile che esecuzioni tramite impiccagione siano avvenute anche in Siria, nonostante non sia possibile confermarlo.
Impiccagioni “extragiudiziarie” sono state effettuate in Afghanistan nelle zone controllate dai Talebani.
Nel 2016, altre 8 impiccagioni sono state effettuate in 3 Paesi non musulmani: Botswana (1), Giappone (3) e Singapore (4).
L’impiccagione è spesso eseguita in pubblico e a volte combinata a pene supplementari come la fustigazione e l’amputazione degli arti prima dell’esecuzione. In Iran avviene di solito tramite delle gru o piattaforme più basse per assicurare una morte più lenta e dolorosa. Come cappio è usata una robusta corda oppure un filo d’acciaio che viene posto intorno al collo in modo da stringere la laringe provocando un forte dolore e prolungando il momento della morte. Oltre a quelle impiccate in carcere, nel 2016, sono state impiccate in pubblico almeno 31 persone, 28 delle quali risultano da fonti ufficiali.

La fucilazione

Non propriamente una punizione islamica, la fucilazione è pure stata usata nei Paesi a maggioranza musulmana nel 2016.
Nel 2016, almeno 24 esecuzioni tramite fucilazione sono state effettuate in 4 Paesi: Arabia Saudita (4), Indonesia (4), Palestina (almeno 2) e Somalia (almeno 14).
È probabile che esecuzioni tramite fucilazione siano avvenute anche in Libia, Siria e Yemen, anche se non è possibile confermarlo a causa dei conflitti armati interni che si sono intensificati nel corso degli ultimi anni e della mancanza di informazioni ufficiali fornite dalle autorità.
Come “esecuzioni extragiudiziarie” andrebbero invece classificate le fucilazioni effettuate in Somalia dagli estremisti islamici di Al-Shabaab e in Yemen da islamisti legati ad Al-Qaeda. Fucilazioni decise da autoproclamati tribunali della Sharia sono state effettuate dallo Stato Islamico in Iraq, Libia in da parte delle milizie del Generale Khalifa Haftar e Siria.
Nel 2016, almeno altre 77 fucilazioni “legali” sono state effettuate in 5 Paesi non musulmani: Bielorussia (4); Cina (numero imprecisato); Corea del Nord (almeno 70); Sudan del Sud (2); Taiwan (1).

La decapitazione

La decapitazione come metodo “legale” per eseguire sentenze capitali in base alla Sharia è un’esclusiva dell’Arabia Saudita, che ha decapitato almeno 150 persone nel 2016. Come “esecuzioni extragiudiziarie” andrebbero invece classificate le decapitazioni effettuate nel 2016 in Somalia dagli estremisti islamici di Al-Shabaab, in Egitto dal gruppo jihadista del Sinai Ansar Beit al-Maqdis e dallo Stato Islamico (IS) in Siria e Iraq.

La lapidazione

Tra le punizioni islamiche, la lapidazione è la più terribile. Il condannato è avvolto da capo a piedi in un sudario bianco e interrato. La donna è interrata fino alle ascelle, mentre l’uomo fino alla vita. Un carico di pietre è portato sul luogo e funzionari incaricati – in alcuni casi anche semplici cittadini autorizzati dalle autorità – eseguono la lapidazione. La morte deve essere lenta e dolorosa, per cui le pietre non devono essere così grandi da provocarla con uno o due colpi. Se il condannato riesce in qualche modo a sopravvivere alla lapidazione, sarà imprigionato per almeno 15 anni ma non verrà giustiziato.
La lapidazione non è una pratica del passato. Ci sono 17 Paesi in cui è prevista dalla legge o praticata di fatto.
La lapidazione è una punizione legale per l’adulterio in 11 Paesi: Arabia Saudita, Brunei Darussalam, Emirati Arabi Uniti, Iran, Mauritania, Nigeria (in un terzo dei 36 Stati del Paese), Pakistan, Qatar, Somalia, Sudan e Yemen. In alcuni Paesi, come il Brunei Darussalam, la Mauritania e il Qatar, la lapidazione non è mai stata praticata, anche se rimane legale.
In quattro dei restanti Paesi – Afghanistan, Iraq, Mali e Siria – la lapidazione non è legale, ma capi tribali, militanti islamici e altri la praticano in via extragiudiziaria.
Nella regione di Aceh in Indonesia e in Malesia, la lapidazione è sanzionata a livello regionale, ma vietata a livello nazionale.
Nel settembre 2016, l’articolo 126 del Codice penale del Sudan che prevede la lapidazione per apostasia è stato emendato sostituendola con l’impiccagione.
Nel 2016, non risultano condanne a morte “legali” eseguite tramite lapidazione.
Nel 2016, lapidazioni extra-giudiziarie sono state invece effettuate in Siria e Iraq dal gruppo fondamentalista noto come Stato Islamico (IS) e in Yemen dagli islamisti legati ad Al-Qaeda. Decine di lapidazioni extragiudiziarie decise da autoproclamati tribunali della Sharia sono state effettuate dallo Stato Islamico anche in Siria e Iraq.

Il “prezzo del sangue”

Secondo la legge islamica, i parenti della vittima di un delitto hanno tre possibilità: esigere l’esecuzione della sentenza, risparmiare la vita dell’assassino con la benedizione di Dio oppure concedergli la grazia in cambio di un compenso in denaro, detto Diya (prezzo del sangue).
Nel 2016, centinaia di casi capitali si sono risolti col perdono dopo il pagamento del “prezzo del sangue” in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait e Pakistan.
In Iran, il “prezzo del sangue” per una vittima donna è la metà di quello di un uomo. Inoltre, se uccide una donna, un uomo non potrà essere giustiziato, anche se condannato a morte, senza che la famiglia della donna abbia prima pagato a quella dell’assassino la metà del suo “prezzo del sangue”.
Nel settembre 2011, l’Arabia Saudita ha deciso di triplicare la diya, mantenendo però il “prezzo del sangue” per l’assassinio di una donna la metà di quello per l’uccisione di un maschio.

Pena di morte per blasfemia e apostasia

In alcuni dei 47 Paesi a maggioranza musulmana nel mondo, convertire dall’Islam ad altra religione o rinunciare all’Islam è considerato apostasia ed è tecnicamente un reato capitale. Inoltre, la pena capitale è stata estesa in base alla Sharia anche ai casi di blasfemia, cioè può essere imposta a chi offende il Profeta Maometto, altri profeti o le sacre scritture.
Secondo il rapporto Freedom of Thought 2016, pubblicato dalla International Humanist and Ethical Union (IHEU), il “reato” di apostasia risulta essere punito con la morte in 12 dei più integralisti Paesi musulmani: Afghanistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Maldive, Malesia (pur contraddicendo la legge federale, i Governi degli Stati di Kelantan e Terengganu hanno approvato, rispettivamente, nel 1993 e nel 2002 leggi che rendono l’apostasia un reato capitale), Mauritania, Nigeria (solo in dodici Stati settentrionali a maggioranza musulmana), Qatar, Sudan e Yemen.
Dei 47 Paesi a maggioranza musulmana, al massimo 6 consentono la pena capitale per blasfemia: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Pakistan e forse Afghanistan (dove, però, la nuova Costituzione incorpora norme sui diritti umani che contraddicono norme penali che considerano la blasfemia un reato capitale).
In altri sei Stati, militanti islamici che agiscono come autorità religiose di alcune aree praticano la pena di morte in base alla Sharia per “reati” legati alla religione: Al-Shabaab in Somalia; Boko Haram e altri islamisti in Nigeria; i Talebani in Afghanistan; il gruppo jihadista sunnita Stato Islamico (IS) in Iraq, Libia e Siria.
Nel 2016, condanne a morte per apostasia, blasfemia o stregoneria sono state comminate in Arabia Saudita, Mauritania, Nigeria e Pakistan.
Il Sudan ha inasprito le sanzioni per blasfemia e continuato a perseguire le persone accusate di apostasia.

PENA DI MORTE NEI CONFRONTI DI MINORI

Nel 2016, sono stati giustiziati almeno 8 minorenni al momento del reato: 5 in Iran e 3 in Arabia Saudita. Nel 2015 le esecuzioni di autori di reato commesso da minorenni sono state almeno 9: 3 in Iran e 6 in Pakistan; nel 2014, almeno 17 e sono avvenute tutte in un solo Paese, l’Iran; nel 2013, almeno 13 persone che avevano meno di 18 anni al momento del fatto erano state giustiziate in 3 Paesi: almeno 9 in Iran; almeno 3 in Arabia Saudita; 1 in Yemen.
Inoltre, nel 2016, persone che erano minorenni al momento dei loro presunti crimini sono state condannate a morte o erano ancora nel braccio della morte alla fine dell’anno in Bangladesh, Indonesia, Papua Nuova Guinea, Nigeria e Pakistan.
Il Kuwait ha abbassato la maggiore età, portandola da 18 a 16 anni, per cui dal 2017 minorenni potranno essere condannati a morte.

LA “GUERRA ALLA DROGA”

Il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici ammette un’eccezione al diritto alla vita per quei Paesi che ancora non hanno abolito la pena di morte, ma solo riguardo ai “reati più gravi”. Gli organismi delle Nazioni Unite sui diritti umani hanno dichiarato i reati di droga non ascrivibili alla categoria dei “reati più gravi”.
Nel 2011, con una “linea guida” interna, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNODC) ha chiesto al suo staff di cessare gli aiuti a un Paese se tale sostegno potrebbe facilitare le esecuzioni. Nonostante questa linea guida, la leadership dell’UNODC non ha smesso di destinare fondi a governi, in particolare quello iraniano, che li utilizzano per catturare, condannare a morte e spesso anche giustiziare presunti trafficanti di droga.
Il 23 giugno 2016, l’UNODC ha presentato il suo Rapporto Mondiale sulla Droga 2016 avvertendo che a livello mondiale il numero dei tossicodipendenti è aumentato. Tuttavia, il documento di 174 pagine non fa alcun riferimento al maggior numero di condanne a morte ed esecuzioni in Paesi come l’Iran, l’Arabia Saudita e il Pakistan, dove l’Agenzia finanzia la polizia anti-droga.
Un certo numero di Stati europei, tra cui Regno Unito, Danimarca e Irlanda, hanno già ritirato i loro finanziamenti a programmi dell’UNODC in Iran, con il Governo danese che ha pubblicamente riconosciuto che le donazioni stavano portando a esecuzioni capitali. Ma la Francia e la Germania hanno rifiutato di assumere impegni analoghi e non hanno escluso di contribuire a un nuovo fondo di finanziamento segreto dell’UNODC alla Polizia Anti Droga (PAD) iraniana. Secondo l’organizzazione umanitaria Reprieve, la Francia ha fornito più di 1 milione di euro alla PAD negli ultimi anni, mentre la Germania ha contribuito a un progetto di 5 milioni di euro dell’UNODC per la formazione e le attrezzature della PAD iraniana. Il Regno Unito ha deciso di fermare il suo finanziamento al Fondo anti-droga destinato all’Iran, ma non a quello per il Pakistan, al quale ha contribuito con più di 12 milioni di sterline.
Un’altra questione riguarda la presenza, in molti Stati, di leggi che prescrivono la condanna a morte obbligatoria per alcuni reati di droga. L’obbligatorietà della pena capitale, che non tiene conto del merito specifico di ogni singolo caso, è stata fortemente criticata dalle autorità internazionali a tutela dei diritti umani. Secondo Harm Reduction International (HRI), i Paesi o territori che nel mondo mantengono leggi che prevedono la pena di morte per reati legati alla droga sono 33, dei quali 10 la prevedono obbligatoriamente in alcuni casi particolari: Brunei Darussalam, Iran, Kuwait, Laos, Malesia, Myanmar, Singapore, Siria, Sudan e Yemen, anche se tre di questi (Brunei Darussalam, Laos e Myanmar) sono di fatto abolizionisti.
Comunque, l’ideologia proibizionista in materia di droga ha continuato a dare un contributo consistente alla pratica della pena di morte anche nel 2016.
Nel 2016, nel nome della guerra alla droga, sono state effettuate almeno 334 (contro le almeno 713 del 2015) esecuzioni in 5 Paesi: Arabia Saudita (almeno 23); Cina (numero sconosciuto); Indonesia (4); Iran (almeno 309); Singapore (2).
Nel 2016, condanne a morte per droga sono state pronunciate, anche se non eseguite, in altri 10 Stati: Emirati Arabi Uniti, India, Kuwait, Laos, Malesia, Pakistan, Qatar, Sri Lanka, Tailandia e Vietnam.

LA “GUERRA AL TERRORISMO”

In nome della lotta al terrorismo, Paesi autoritari e illiberali hanno continuato nella violazione dei diritti umani al proprio interno e, in alcuni casi, hanno giustiziato e perseguitato persone in realtà coinvolte solo nella opposizione pacifica o in attività sgradite al regime.
Nel 2016, almeno 182 esecuzioni per fatti di “terrorismo” o per crimini violenti di natura politica sono state effettuate in 8 Paesi: Afghanistan (6); Arabia Saudita (almeno 47), Bangladesh (6), Egitto (1), Iran (almeno 24), Iraq (almeno 88), Pakistan (7) e Somalia (almeno 3). Erano state almeno 100 quelle compiute in 12 Paesi nel 2015.
Erano state almeno 100, compiute in 12 Paesi, nel 2015.
È probabile che esecuzioni “legali” per terrorismo siano avvenute anche in Libia, Siria e Yemen nel 2016, anche se non è possibile confermarlo.
Nel 2016, centinaia di condanne a morte per “atti di terrorismo” sono state pronunciate anche se non eseguite in altri 11 Paesi: Algeria, Camerun, Emirati Arabi Uniti, Giordania, India, Repubblica Democratica del Congo, Kazakistan, Kuwait, Libano, Sudan e Tunisia. Nuove leggi anti-terrorismo che prevedono la pena di morte sono state approvate in Corea del Sud e Tanzania.
Alla fine del 2016, nella base della marina militare degli Stati Uniti di Guantanamo, in una zona extraterritoriale dell’isola di Cuba, risultavano ancora detenute decine di persone per terrorismo.

PENA DI MORTE PER REATI NON VIOLENTI, POLITICI E D’OPINIONE

Secondo il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, “nei Paesi in cui la pena di morte non è stata abolita, una sentenza capitale può essere comminata soltanto per i delitti più gravi”. Il limite dei “reati più gravi” per l’applicazione legittima della pena di morte è sostenuto anche dagli organismi politici delle Nazioni Unite, i quali chiariscono che per “reati più gravi” s’intendono solo quelli “con conseguenze letali o estremamente gravi”.
Ciò nonostante, nel 2016, condanne a morte o esecuzioni per reati non violenti o per motivi essenzialmente politici si sono verificate in Cina (numero imprecisato), Corea del Nord (almeno 70 esecuzioni) e Iran (almeno 4 esecuzioni). In Vietnam, non si sono avute notizie di esecuzioni o condanne a morte per reati non violenti nel 2016, mentre nei primi sei mesi del 2017 si sono registrate due condanne a morte per reati economici.
Alla pena di morte per crimini contro lo Stato che non abbiano avuto conseguenze letali si è fatto ricorso anche in Arabia Saudita, Egitto, Libano, Pakistan e Palestina (Gaza).

LA PENA DI MORTE “TOP SECRET”

Nel dicembre 2016, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una nuova Risoluzione che invita gli Stati membri a stabilire una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell’abolizione della pratica. Questa Risoluzione è stata rafforzata nella parte in cui chiede agli Stati di “rendere disponibili le informazioni rilevanti, disaggregate per sesso, età a razza, ed altri criteri comuni, circa l’uso della pena di morte,” includendo, tra l’altro, il numero di persone condannate a morte, il numero di persone nel braccio della morte, il numero di esecuzioni, il numero di condanne annullate o commutate in appello, e informazioni su ogni esecuzione in calendario, che possano contribuire a eventuali dibattiti trasparenti sia a livello nazionale che internazionale, compresi quelli sugli obblighi degli Stati relativi alla pratica della pena di morte.
Molti Paesi, per lo più autoritari, non forniscono statistiche ufficiali sull’applicazione della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.
In alcuni casi, come la Cina e il Vietnam, la questione è considerata un segreto di Stato e le notizie di esecuzioni riportate dai giornali locali o da fonti indipendenti rappresentano una minima parte del fenomeno.
Anche in Bielorussia vige il segreto di Stato, retaggio della tradizione sovietica, e le notizie sulle esecuzioni filtrano dalle prigioni tramite parenti dei giustiziati o organizzazioni internazionali molto tempo dopo la data dell’esecuzione.
In Iran, dove pure non esiste segreto di Stato sulla pena di morte, le sole informazioni disponibili sulle esecuzioni sono tratte da notizie selezionate dal regime e uscite su media statali o rese pubbliche da fonti ufficiose o indipendenti.
Ci sono poi situazioni in cui le esecuzioni sono tenute assolutamente nascoste dallo stato e le notizie raramente filtrano dai giornali locali. È il caso di Corea del Nord, Egitto, Laos, Malesia e Siria. Nel 2016, laddove, come in Vietnam e Malesia, il Governo ha fornito informazioni sulla pratica della pena di morte la realtà che è emersa è più grave di quanto si pensasse.
Vi sono, poi, Paesi come Arabia Saudita, Indonesia, Iraq, Singapore e Sudan del Sud, dove le esecuzioni sono di dominio pubblico solo una volta che sono state effettuate, mentre familiari, avvocati e gli stessi condannati a morte sono tenuti all’oscuro di tutto.
A ben vedere, in tutti questi Paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.
Vi sono, però, anche Paesi considerati “democratici”, come Giappone, India, Taiwan e gli stessi Stati Uniti, dove il sistema della pena capitale è per molti aspetti coperto da un velo di segretezza.

LA “CIVILTÀ” DELL’INIEZIONE LETALE

Sempre più la pena di morte è vista nel mondo come una forma di tortura, dal momento che infligge una grave sofferenza mentale e fisica ai condannati a morte, ha detto lo Special Rapporteur dell’ONU sulla tortura, Juan Mendez, intervenendo il 23 ottobre 2012 al Comitato Diritti Umani dell’Assemblea Generale. “Nessun metodo di esecuzione può essere considerato completamente indolore”, ha detto ai giornalisti dopo l’intervento al Terzo Comitato dell’Assemblea Generale. Nel suo rapporto all’Assemblea, Mendez ha detto che diversi gruppi di esperti delle Nazioni Unite hanno esortato gli Stati Uniti a rivedere i suoi metodi di esecuzione, tra cui l’iniezione letale, per prevenire dolore e sofferenza estremi. “A seguito di un certo numero di esecuzioni negli Stati Uniti, è ormai evidente che il sistema [dell’iniezione letale], come attualmente gestito, non funziona nel modo più efficiente come previsto”, ha detto Mendez nella sua relazione, aggiungendo che “per alcuni prigionieri ci vogliono molti minuti prima di morire mentre altri cadono in preda all’angoscia”. “Nuovi studi arrivano alla conclusione che, anche se l’iniezione letale è somministrata senza errori tecnici, nei giustiziati potrebbe verificarsi uno stato di soffocamento; quindi la visione convenzionale dell’iniezione letale come una morte serena e indolore è discutibile.”
Oggi, ci sono cinque Paesi che usano o prevedono l’iniezione letale come metodo di esecuzione: Stati Uniti, Cina, Taiwan, Tailandia e Vietnam.
Le esecuzioni per iniezione letale sono state effettuate anche in Guatemala e Filippine, ma sono ormai fuori uso da quando questi due Paesi hanno, rispettivamente, istituito una moratoria ufficiale sulle esecuzioni e abolito la pena di morte.
Nel 2016, l’iniezione letale per eseguire la pena di morte è stata utilizzata in 3 Paesi: Stati Uniti (20 esecuzioni); Cina (numero imprecisato di esecuzioni) e Vietnam (circa 100).