SINTESI DEI FATTI PIU' IMPORTANTI

11 Luglio 2020 :

I FATTI PIÙ IMPORTANTI DEL 2018
LA SITUAZIONE AD OGGI

Sviluppi sulla pena di morte nel mondo

L’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da vent’anni, si è confermata nel 2018.
I Paesi o i territori che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica sono oggi 165. Di questi, i Paesi totalmente abolizionisti sono 106; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 8; quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni sono 6; i Paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte, sono 45.
I Paesi mantenitori della pena di morte sono progressivamente diminuiti nel corso degli ultimi dieci anni: alla fine del 2018 erano 33, rispetto ai 36 del 2017 e in netto calo rispetto ai 51 del 2007.

 

Esecuzioni

Nel 2018, i Paesi e i territori che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali sono stati 20, mentre erano 23 nel 2017.
Nel 2018, le esecuzioni sono state almeno 2.759, a fronte delle almeno 3.120 nel 2017.
Nel 2018, non si sono registrate esecuzioni in 7 Paesi – Bahrein, Bangladesh, Giordania, Kuwait, Malesia, Palestina ed Emirati Arabi Uniti – che le avevano effettuate nel 2017.
Viceversa, 4 Paesi che non avevano effettuato esecuzioni nel 2017, le hanno riprese nel 2018: Botswana (2), Sudan (2), Tailandia (1), Taiwan (1).
Anche se non è possibile confermarlo, è probabile che esecuzioni “legali” siano avvenute anche in Siria nel 2018.

 

Quadro regionale

Ancora una volta, l’Asia si conferma essere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. Se stimiamo che in Cina vi sono state almeno 2.000 esecuzioni, il dato complessivo del 2018 nel continente asiatico corrisponde ad almeno 2.644 esecuzioni (il 95,8%), in calo rispetto al 2017 quando erano state almeno 3.036 (il 97%).
Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Stati Uniti, l’unico Paese del continente che ha compiuto esecuzioni nel 2018 (25). Nei 13 Paesi dei Caraibi, solo la Guyana ha comminato la pena di morte nel 2018, mentre i bracci della morte di 9 Paesi dell’area erano ancora vuoti alla fine dell’anno.
In Africa, nel 2018, la pena di morte è stata praticata in 5 Paesi (2 in più rispetto al 2017) nei quali si sono registrate almeno 86 esecuzioni (in netto aumento rispetto alle 59 del 2017): Egitto (almeno 62), Somalia (13), Sudan del Sud (almeno 7), Botswana (2) e Sudan (2).
In Europa, l’unica eccezione in un continente altrimenti totalmente libero dalla pena di morte è rappresentata dalla Bielorussia, un Paese che negli ultimi anni ha continuato a giustiziare suoi cittadini. Nel 2018 le esecuzioni sono state almeno 4, mentre se ne erano registrate 2 nel 2017. Per quanto riguarda il resto dell’Europa, tutti gli altri Paesi l’hanno abolita in tutte le circostanze, mentre la Russia rispetta una moratoria legale delle esecuzioni.


La settima Risoluzione ONU per la Moratoria universale delle esecuzioni capitali

Il 17 dicembre 2018, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la sua settima Risoluzione dal 2007, che invita gli Stati a stabilire una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell’abolizione della pratica.
La nuova Risoluzione è stata adottata con il numero record di 121 voti a favore (4 in più rispetto al 2016), 35 contrari (5 in meno rispetto al 2016), mentre gli astenuti sono stati 32 (1 in più rispetto al 2016) e 5 gli assenti al momento del voto (come nel 2016).
La risoluzione è stata proposta dal Brasile per conto di una task force interregionale di stati membri e co-sponsorizzata da 83 stati.
Per la prima volta, Dominica, Libia, Malesia e Pakistan hanno cambiato il loro voto per sostenere la risoluzione, mentre Antigua e Barbuda, Guyana e Sudan del Sud sono passati dall’opposizione all’astensione. Guinea equatoriale, Gambia, Mauritius, Niger e Ruanda hanno nuovamente votato a favore della richiesta di una moratoria sulle esecuzioni, non avendo fatto ciò nel 2016. Cinque paesi hanno invertito i voti del 2016, tuttavia Nauru è passato dal voto a favore al voto contro e il Bahrein e lo Zimbabwe passano dall’astensione all’opposizione.
Il Congo (Repubblica di) e la Guinea sono passati dal voto a favore all’astensione. La settima risoluzione delle Nazioni Unite contiene alcuni emendamenti molto positivi e importanti rispetto al testo del 2016, che ne aumentano il valore. In particolare, la risoluzione afferma la necessità di: garantire che una condanna a morte non sia mai decisa in modo discriminatorio; fornire assistenza legale obbligatoria a coloro che sono accusati di reati capitali; invitare i governi ad abolire
l’applicazione obbligatoria della pena di morte dai loro sistemi giuridici nazionali.

 

Le informazioni contenute in questo Rapporto sono il frutto di un monitoraggio quotidiano delle notizie sulla pena di morte nel mondo e della sua evoluzione. Il Rapporto offre un quadro complessivo dei fatti più importanti avvenuti nel 2018. Le informazioni qui riportate sono disponibili – complete di date e fonti – nella banca dati online di Nessuno tocchi Caino al sito www.nessunotocchicaino.it o www.handsoffcain.info

 

 

LA PENA DI MORTE NEI PAESI ILLIBERALI: CINA, IRAN E ARABIA SAUDITA I PRIMI PAESI BOIA DEL 2018

Dei 33 mantenitori della pena di morte, 28 sono Paesi dittatoriali, autoritari o parzialmente liberi. In 16 di questi Paesi, nel 2018, sono state compiute almeno 2.716 esecuzioni, il 98,4% del totale mondiale.
Un Paese solo, la Cina, ne ha effettuate almeno 2.000, circa il 72,5% del totale mondiale: l’Iran ne ha effettuate almeno 310; l’Arabia Saudita 142; il Vietnam almeno 85; l’Egitto almeno 62; l’Iraq almeno 52; il Pakistan almeno 14; la Somalia 13; Singapore 13; il Sudan del Sud almeno 7; lo Yemen almeno 5; la Bielorussia almeno 4; la Corea del Nord almeno 3; l’Afghanistan 3; il Sudan 2; la Tailandia 1.
È probabile che esecuzioni “legali” siano avvenute anche Siria nel 2018.
Molti di questi Paesi non forniscono statistiche ufficiali sulla pratica della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.
A ben vedere, in tutti questi Paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.
Sul terribile podio dei primi tre Paesi che nel 2018 hanno compiuto più esecuzioni nel mondo figurano tre Paesi autoritari, gli stessi del 2017: Cina, Iran e Arabia Saudita.

 

CINA, PRIMATISTA DI ESECUZIONI, ANCHE SE IN NETTA DIMINUZIONE

Ogni anno, la Cina mette a morte più persone rispetto al resto del mondo, anche se la cifra esatta non viene resa pubblica ed è considerata un segreto di stato.
Secondo le stime della Dui Hua Foundation, un’organizzazione non governativa per i diritti umani con sede negli Stati Uniti, nel 2016, il paese ha eseguito circa 2.000 condanne a morte, ed è probabile che lo stesso numero di esecuzioni si sia registrato nel 2017 e nel 2018. Questo dato rappresenta comunque un calo di un terzo rispetto alle circa 3.000 esecuzioni del 2012 e un calo ancor più significativo rispetto alle 6.500 nel 2007 e alle 12.000 del 2002.
Tale diminuzione è stata più significativa a partire dal 1° gennaio 2007, quando è entrata in vigore la riforma in base alla quale ogni condanna a morte emessa da tribunali di grado inferiore deve essere rivista dalla Corte Suprema. La riforma del 2007 è ritenuta una delle più importanti sulla pena di morte in Cina e segna un’inversione rispetto alle campagne del “colpire duro” avviate negli anni 80 e che avevano portato nel 1983 la Corte Suprema a delegare alle corti provinciali la definizione in ultima istanza dei casi capitali.
Dopo la riforma del 2007, la Cina ha continuato ad adottare nuove misure per limitare il numero delle condanne a morte e prevenire quelle errate.
Nel maggio 2008, la Corte Suprema e il Ministero della Giustizia cinesi hanno emanato congiuntamente un regolamento sul ruolo degli avvocati difensori nei casi capitali, il quale dispone che le istituzioni di sostegno legale debbano designare avvocati esperti di casi capitali e che questi ultimi non possano trasferire il caso ai propri assistenti.
Inoltre, sin dal febbraio 2010, la Corte Suprema ha raccomandato di adottare la politica della “giustizia mitigata dalla clemenza”, suggerendo ai tribunali che i criminali non meritevoli di immediata esecuzione debbano essere condannati a morte con due anni di sospensione. Nella normale pratica giudiziaria, in questi casi la condanna è commutata in ergastolo dopo due anni.
Nell’agosto 2015, la Cina ha modificato il codice penale, eliminando la pena di morte per nove reati: contrabbando di armi, munizioni, materiali nucleari o denaro contraffatto; contraffazione di denaro; raccolta di fondi per mezzo di frodi; favorire o costringere un’altra persona a prostituirsi; ostacolare un comandante o una persona di turno nell’esercizio dei suoi compiti; invenzione di voci per indurre in errore altri in tempo di guerra. L’eliminazione della pena di morte per questi nove reati incide poco e nulla sulla pratica della pena capitale in Cina, che si concentra in gran parte su casi di omicidio, stupro, rapina e reati di droga. Tuttavia, mostra che il Governo continua a fare passi in avanti verso la graduale abolizione.
È stata la seconda volta che la Cina ha ridotto il numero di reati capitali dal 1979, quando è entrato in vigore l’attuale codice penale. Nel febbraio 2011, la Cina aveva già emendato il codice penale riducendo di 13 il numero dei reati punibili con la pena di morte, portandoli a 55. Erano per lo più reati di natura economica e non violenta.
Al momento, quindi, la Cina prevede 46 crimini punibili con la morte nel suo codice penale.

 

IRAN, CALO DEL NUMERO DELLE ESECUZIONI

L’elezione di Hassan Rouhani come Presidente della Repubblica Islamica il 14 giugno 2013 e la sua riconferma alle elezioni del 19 maggio 2017, hanno portato molti osservatori, alcuni difensori dei diritti umani e la comunità internazionale a essere ottimisti. Tuttavia, il suo Governo non ha cambiato approccio per quanto riguarda l’applicazione della pena di morte; anzi, il tasso di esecuzioni è nettamente aumentato a partire dall’estate del 2013.
Almeno 3.598 prigionieri sono stati giustiziati in Iran dall’inizio della presidenza di Rouhani (tra il 1° luglio 2013 e il 31 dicembre 2018). Dal 1° luglio 2013 al 31 dicembre 2013 le esecuzioni sono state almeno 444, sono state almeno 800 nel 2014, almeno 970 nel 2015, almeno 530 nel 2016, almeno 544 nel 2017 e 310 nel 2018.
Anche se il numero di esecuzioni negli ultimi due anni è significativamente inferiore rispetto a quello degli anni precedenti, l’Iran rimane nel 2018 il paese con il più alto numero di esecuzioni pro capite.
Delle 310 esecuzioni del 2018, solo 85 esecuzioni (circa il 27%) sono state riportate da fonti ufficiali iraniane (siti web della magistratura, televisione nazionale, agenzie di stampa e giornali statali); 225 casi (circa il 73%) inclusi nei dati del 2018 sono stati segnalati da fonti non ufficiali (organizzazioni non governative per i diritti umani o altre fonti interne iraniane). Il numero effettivo delle esecuzioni è probabilmente superiore ai dati forniti nel Rapporto di Nessuno tocchi Caino.
I reati che hanno motivato le condanne a morte sono suddivisi come segue in termini di frequenza: omicidio: 219 (circa 70%), di cui 36 ufficiali; Moharebeh (fare guerra a Dio), “corruzione in terra”, rapina ed estorsione: 34 (circa 10%), di cui 29 ufficiali; traffico di droga: 27 esecuzioni (circa 8%), nessuna ufficiale; stupro: 17 (circa 5%), di cui 14 ufficiali; reati di natura politica e “terrorismo”: 13 (4%), di cui 6 ufficiali.
L’impiccagione è il metodo preferito con cui è applicata la Sharia in Iran.
Le esecuzioni pubbliche sono continuate nel 2018. Almeno 13 persone sono state impiccate sulla pubblica piazza nel 2018 secondo le notizie ufficiali raccolte da Nessuno tocchi Caino, un numero nettamente inferiore alle 36 del 2017.
Le esecuzioni di donne sono state nel 2018 almeno 5 (rispetto alle 12 del 2017) secondo le notizie raccolte, di cui 1 attraverso fonti ufficiali e 4 non-ufficiali.
Due di loro erano minorenni al momento del fatto. Il regime iraniano ha impiccato almeno altre 17 donne nel 2019. Almeno altre 2 donne sono state giustiziate nel gennaio 2020, portando a 106 il numero totale di donne giustiziate durante il regno del presunto moderato Hassan Rouhani.
Le esecuzioni di minorenni sono continuate nel 2018, fatto che pone l’Iran in aperta violazione della Convenzione sui Diritti del Fanciullo che pure ha ratificato.
Almeno 7 presunti minorenni al momento del fatto sono stati giustiziati per omicidio, di cui 1 solo caso riportato da fonti ufficiali. Il regime iraniano ha impiccato almeno altri 8 minorenni nel 2019.
Nel 2018, almeno 10 persone sono state impiccate per fatti di natura essenzialmente politica. Ma è probabile che molti altri giustiziati per reati comuni fossero in realtà oppositori politici, in particolare appartenenti alle varie minoranze etniche iraniane, tra cui azeri, curdi, baluci e ahwazi. Accusati di essere mohareb, cioè nemici di Allah, gli arrestati sono di solito sottoposti a un processo rapido e severo che si risolve spesso con la pena di morte. Oltre alla morte, la punizione per Moharebeh è l’amputazione della mano destra e del piede sinistro, secondo il codice penale iraniano.

 

ARABIA SAUDITA

Nel 2018, l’Arabia Saudita ha giustiziato almeno 142 persone, a fronte delle almeno 140 decapitate nel 2017.
Dei giustiziati, 3 erano donne e 139 uomini; 73 cittadini sauditi e 69 stranieri tra cui le 3 donne (un aumento del 30% rispetto agli almeno 53 stranieri giustiziati nel 2017). La maggioranza dei giustiziati era stata condannata per omicidio (82), reati legati alla droga (57), terrorismo (1), stupro (1) e rapina a mano armata (1).
Nel 2019, secondo l’ONG britannica Reprieve, l’Arabia Saudita ha compiuto 184 esecuzioni, il numero più alto degli ultimi sei anni.
L’Arabia Saudita aveva in passato un numero di esecuzioni tra i più alti al mondo – il record era stato stabilito nel 1995 con 191 esecuzioni –, ma negli ultimi anni si era registrato un sensibile calo, dovuto anche a qualche piccola riforma nel sistema penale.
La nuova ondata di esecuzioni è iniziata verso la fine del regno di Re Abdullah, morto il 23 gennaio 2015, accelerando sotto il suo successore Re Salman, che ha adottato una politica estera più aggressiva.
Il 5 aprile 2018, il Re Mohammad bin Salman aveva dichiarato in una intervista al settimanale Times che il Regno saudita aveva un piano per ridurre il numero delle esecuzioni che avrebbe riguardato le condanne a morte per reati che non fossero l’omicidio. Tenuto conto che l’Arabia Saudita ricorre alla pena di morte, oltre che per omicidio, principalmente per droga, il Re aveva detto che si sarebbe considerato l’ergastolo invece che la pena di morte, ad esclusione che per l’omicidio.
Tuttavia, a parte questa dichiarazione, le esecuzioni per droga, che continuano a rappresentare il 40% del totale delle esecuzioni compiute, sono calate pochissimo (0,05%) passando dalle 60 del 2017 alle 57 del 2018.

 

DEMOCRAZIA E PENA DI MORTE

Dei 33 Paesi mantenitori della pena capitale, sono solo 5 quelli che possiamo definire di democrazia liberale, con ciò considerando non solo il sistema politico del Paese, ma anche il sistema dei diritti umani, il rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello Stato di diritto.
Le democrazie liberali che nel 2018 hanno praticato la pena di morte sono state 4 e hanno effettuato in tutto 43 esecuzioni, lo 1,6% del totale mondiale: Stati Uniti (25), Giappone (15), Botswana (2) e Taiwan (1).
Le esecuzioni nelle democrazie liberali sono calate nettamente nel 2019. Sono state in tutto 26 in 3 paesi: Stati Uniti (22), Giappone (3) e Botswana (1).
Nel 2017, solo Stati Uniti e Giappone avevano effettuato esecuzioni (in tutto 27).
In molti di questi Paesi considerati “democratici”, il sistema della pena capitale è per molti aspetti anche coperto da un velo di segretezza.

 

ABOLIZIONI LEGALI, DI FATTO E MORATORIE

Nel 2018, 4 Paesi – Burkina Faso, Gambia, Malesia e Saint Kitts e Nevis –hanno rafforzato la lista degli abolizionisti di diritto o di fatto.
Negli Stati Uniti, recentemente, altri 6 Stati sono passati, de jure o de facto, al fronte abolizionista.
Washington è diventato il 20° Stato USA ad abolire la pena di morte l’11 ottobre 2018, quando la sua Corte Suprema ha dichiarato all’unanimità che la pena capitale viola la costituzione dello Stato perché “è inflitta in modo arbitrario e tendenzialmente razziale”.
Il New Hampshire è diventato il 21° stato ad abolire la pena di morte il 30 maggio 2019, quando il Senato del New Hampshire ha abrogato la legge sulla pena di morte, annullando il veto del governatore Chris Sununu con una maggioranza di 16-8 pari ai due terzi necessari per superarlo.
Il 13 marzo 2019, il governatore della California Gavin Newsom ha dichiarato una moratoria sulle esecuzioni nello stato con il più grande braccio della morte del Paese. Newsom ha stabilito la moratoria attraverso un ordine esecutivo che concede la clemenza ai 737 prigionieri attualmente nel braccio della morte della California. Ha anche annunciato che stava ritirando il protocollo di esecuzione dello stato e stava chiudendo la camera della morte.
Altri 3 stati hanno segnato il passaggio decennale senza esecuzioni: il Kentucky (21 novembre 2018); l’Indiana (11 dicembre 2019); la Louisiana (7 gennaio 2020).

 

 

VERSO L’ABOLIZIONE

Nel 2018, ulteriori passi politici o legislativi verso l’abolizione o la moratoria di fatto della pena capitale si sono verificati in molti Paesi, sia a livello interno sia in sede internazionale.
In alcuni Paesi, sono state annunciate o proposte leggi per l’abolizione della pena di morte nella Costituzione o nei codici penali, o se ne è limitato l’uso per alcuni reati capitali.
Altri Paesi hanno confermato la loro politica di moratoria di fatto sulla pena di morte o sulle esecuzioni in atto da molti anni. In molti stati della Regione dei Caraibi non sono state comminate nuove condanne a morte e i bracci della morte erano ancora vuoti alla fine del 2018.
Commutazioni collettive di pene capitali di tipo presidenziale o sospensioni di esecuzioni a tempo indeterminato sono state decise in molti altri Paesi.
In Afghanistan, il 14 febbraio 2018 è entrato in vigore il nuovo codice penale, che ha ridotto la previsione di pena di morte da 54 a 14 reati.
In Palestina, il 6 giugno 2018, il Presidente Mahmoud Abbas ha firmato l’adesione dello Stato di Palestina a 7 convenzioni e trattati internazionali, incluso il Secondo Protocollo Opzionale al Patto Internazionale sui Diritti civili e Politici, mirante all’abolizione della pena di morte.
Dal 2007 il governo di Hamas a Gaza ha continuato a comminare condanne capitali ed effettuare esecuzioni, senza che fossero ratificate dal Presidente Mahmoud Abbas, come prevede la legge fondamentale palestinese.
In Corea del Sud il 19 giugno 2018, l’ufficio del Presidente Moon Jae-in ha detto che avrebbe valutato una moratoria sulla pena di morte se l’organismo statale per i diritti umani, la National Human Rights Commission, ne avesse fatto richiesta.
Il 10 ottobre 2018, l’organismo statale per i diritti umani ha reso noto che la maggioranza dei sudcoreani concorda sul fatto che la pena di morte dovrebbe essere abolita e sostituita con forme alternative di punizione.
Nel 2018, per il secondo anno consecutivo, nessuna condanna a morte si è registrata in Etiopia. Nel 2017, l’Etiopia era divenuta abolizionista di fatto, dopo che per il decimo anno consecutivo, non aveva effettuato esecuzioni.
Nel 2018, come nel 2017, in Malawi non si sono registrate nuove condanne a morte e alla fine dell’anno c’erano 15 detenuti nel braccio della morte.
Nel 1994, a seguito delle prime elezioni democratiche del Paese, è salito al potere il Presidente Bakili Muluzi. In tutto il suo mandato, durato fino al maggio 2004, Muluzi non ha mai firmato un ordine di esecuzione. I suoi successori, fino a oggi, non hanno cambiato atteggiamento sulla pena di morte. Le Maldive non hanno condannato a morte nessuno nel 2018 nonostante lo avesse fatto nel 2017, quando sono state pronunciate 2 nuove condanne a morte.
Il 27 novembre 2018, durante la revisione delle Maldive davanti al Comitato Contro la Tortura delle Nazioni Unite, l’amministrazione appena insediata del Presidente Ibrahim Mohamed Solih si è impegnata a mantenere la moratoria di 65 anni sulla pena di morte. Il governo ha anche annunciato che le Maldive avrebbero votato a favore della risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per la “Moratoria sull’uso della pena di morte”.
Nel 2018, i tribunali del Marocco hanno imposto 10 condanne a morte. Amnesty International ha registrato 93 persone sotto condanna a morte alla fine dell’anno. Da quando è salito al trono il 23 luglio 1999, Re Mohammed VI non ha mai firmato un decreto di esecuzione. Da allora molte decine di prigionieri nel braccio della morte hanno ricevuto la commutazione della condanna capitale in ergastolo, un ulteriore segnale nella direzione dell’abolizione della pena capitale nel Paese che ha subito una battuta d’arresto dopo gli attentati terroristici avvenuti a Casablanca, prima nel maggio 2003 e poi all’inizio del 2007, che hanno provocato resistenze da parte delle autorità statali nel processo abolizionista in corso nel Paese.
Lo Zambia non ha giustiziato nessuno dal 1997, grazie a una moratoria presidenziale sulle esecuzioni confermata dagli ultimi quattro capi di Stato, Levy Mwanawasa, Rupiah Banda, Michael Sata ed Edgar Lungu, personalmente contrari alla pena di morte.
Nel 2018, sono state comminate in Zimbabwe almeno 5 nuove condanne a morte. Alla fine dell’anno, c’erano almeno 81 detenuti nel braccio della morte.
Alla fine del 2017, il Presidente Robert Mugabe è stato deposto dopo 37 anni al governo del Paese e sostituito da Emmerson Mnangagwa, che ha promesso “una nuova democrazia”. Il cambiamento è stato significativo anche per la politica sulla pena di morte. Mugabe, verso la fine del suo incarico presidenziale aveva intenzione di riprendere le esecuzioni.
Mnangagwa, d’altra parte, è stato chiaro nella sua opposizione alla pena di morte.
Il 21 marzo 2018, nell’ambito di un’amnistia presidenziale rivolta a 3.000 detenuti, il Presidente Mnangagwa ha commutato le condanne a morte di 16 detenuti che sono stati nel braccio della morte per almeno dieci anni.
Il 10 ottobre, in occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte, il presidente Mnangagwa ha ribadito la sua opposizione alla pena di morte, sottolineando che si tratta di un affronto alla dignità umana.
Nel 2018, nella regione dei Caraibi, sono stati fatti altri passi significativi verso la limitazione dell’uso della pena di morte.
In 9 Paesi non sono state comminate nuove condanne a morte e i bracci della morte erano ancora vuoti alla fine del 2018: Antigua e Barbuda, Bahamas, Belize, 2Cuba, Dominica, Giamaica, Guatemala, Saint Kitts e Nevis e Saint Lucia.
Il 21 febbraio 2018, il Governo del Benin ha commutato tutte le 14 condanne a morte in carcere a vita, svuotando così il braccio della morte, dopo che, nel 2016, la Corte Costituzionale aveva dichiarato incostituzionale la pena di morte a seguito della ratifica nel luglio 2012 del Secondo Protocollo Opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici. L’abolizione è stata annunciata in un comunicato rilasciato al termine della riunione del Consiglio dei ministri. Pertanto, ha annunciato il Ministro della Giustizia, “nelle prigioni del Benin non si trova nessuna persona condannata a morte”.
Il 4 giugno 2018, l’Assemblea nazionale ha adottato un nuovo codice penale che non prevede la pena di morte. Il codice è stato promulgato il 28 dicembre.
Nel 2018, non sono state effettuate esecuzioni in Nigeria. Alla fine dell’anno, il numero dei detenuti in attesa di esecuzione aveva superato quota 2.200, incluse le almeno 46 condanne emesse nel 2018.
Usando i poteri di grazia previsti dalla Costituzione nigeriana, i Governatori di tre Stati della federazione hanno commutato 35 sentenze capitali in ergastolo e graziato 16 detenuti nel braccio della morte.
In India, i tribunali giudiziari hanno emesso 102 condanne a morte nel 2019, oltre il 60% in meno rispetto alle 162 emesse nel 2018, secondo “The Death Penalty in India: Annual Statistics”, pubblicato dal Progetto 39A presso la National Law University (NLU), Delhi.
I tribunali, tuttavia, non hanno perdonato gli omicidi a seguito di violenze sessuali: in questi casi le condanne a morte nel 2019 sono state 54 su 102, il numero più alto in quattro anni.
Secondo le statistiche, le condanne a morte sono spesso annullate o commutate in ergastolo da tribunali superiori. Il 2019 ha visto anche il maggior numero di conferme da parte delle alte corti in quattro anni; però, il 17 delle 26 conferme erano in casi di omicidio con violenza sessuale.
Le condanne devono essere confermate dalla Corte Suprema, la quale nella storica sentenza “Bachan Singh contro lo Stato del Punjab” del 9 maggio 1980 ha sostenuto che la pena di morte può essere applicata solo se il caso rientra tra quelli “più rari tra i rari”.
Nel 2018, la Corte Suprema ha continuato a dare il suo contributo per ridurre al minimo l’uso della pena di morte. Secondo un rapporto della National Law University di Delhi, i tribunali giudiziari hanno pronunciato 162 condanne a morte nel 2018, il numero più alto in un anno solare dal 2000.
Nel 2018, la Corte Suprema ha commutato la condanna a morte in ergastolo in 11 dei 12 casi che aveva trattato. L’unico in cui è stata confermata la pena di morte è stato il caso di stupro di gruppo avvenuto a Delhi del 2012.

 

RIPRISTINO DELLA PENA DI MORTE E RIPRESA DELLE ESECUZIONI

Nel 2018, 4 Paesi che non avevano effettuato esecuzioni nel 2017, le hanno riprese: Botswana (2), Sudan (2), Tailandia (1), Taiwan (1).
Una battuta d’arresto alla moratoria di fatto in corso sulle esecuzioni è stata registrata in Sri Lanka dal momento che il 10 luglio 2018 il Governo ha approvato all’unanimità il ripristino della pena capitale per crimini legati alla droga. Il Presidente Maithripala Sirisena ha annunciato di essere pronto a riprendere le esecuzioni per quei trafficanti di droga che continuano ad operare dal carcere.

 

LA PENA DI MORTE NEI PAESI MUSULMANI

Dei 47 Paesi e territori a maggioranza musulmana nel mondo, 26 possono essere considerati a vario titolo abolizionisti, mentre i mantenitori della pena di morte sono 21, dei quali 17 hanno nei loro ordinamenti giuridici richiami espliciti alla Sharia. In alcuni casi, questi sistemi giuridici derivano anche da fonti consolidate e sovrapposte, sia storiche sia recenti, religiose e laiche. In altri casi, la legge della Sharia resta l’unica fonte per la legislazione del Paese.
Nel 2018, almeno 603 esecuzioni, contro le almeno 979 esecuzioni del 2017, sono state effettuate in 9 Paesi a maggioranza musulmana (erano stati 15 nel 2017), molte delle quali ordinate da tribunali islamici in base a una stretta applicazione della Sharia.
L’impiccagione, la fucilazione e la decapitazione sono stati i metodi con cui è stata praticata “legalmente” la pena di morte nei Paesi a maggioranza musulmana, mentre non risulta siano state eseguite condanne a morte “legali” tramite lapidazione che, tra le punizioni islamiche, è la più terribile.

 

L’IMPICCAGIONE E NON SOLO

Tra i metodi di esecuzione di sentenze capitali nei Paesi a maggioranza musulmana, il più diffuso è l’impiccagione, la quale è preferita per gli uomini ma non risparmia le donne.
Nel 2018, almeno 443 impiccagioni – contro le 808 del 2017, le 756 del 2016 e le 1.360 del 2015 – sono state effettuate in 6 Paesi a maggioranza musulmana: Iran (almeno 310), Egitto (almeno 62), Iraq (almeno 52), Pakistan (almeno 14), Afghanistan (3) e Sudan (2).
È probabile che esecuzioni tramite impiccagione siano avvenute anche in Siria, nonostante non sia possibile confermarlo.
L’impiccagione è spesso eseguita in pubblico e a volte combinata a pene supplementari come la fustigazione e l’amputazione degli arti prima dell’esecuzione.
Impiccagioni “extragiudiziarie” sono state effettuate in Afghanistan nelle zone controllate dai Talebani. Nel 2018, altre 37 impiccagioni sono state effettuate in 4 Paesi non musulmani: Giappone (15), Singapore (13), Sudan del Sud (almeno 7) e Botswana (2).

Iran

L’impiccagione in versione iraniana avviene di solito tramite delle gru o piattaforme più basse per assicurare una morte più lenta e dolorosa. Come cappio è usata una robusta corda oppure un filo d’acciaio che viene posto intorno al collo in modo da stringere la laringe provocando un forte dolore e prolungando il momento della morte. L’impiccagione è spesso combinata a pene supplementari come la fustigazione e l’amputazione degli arti prima dell’esecuzione.
Nel 2018 sono state effettuate almeno 310 impiccagioni: 85 sono state riportate da fonti ufficiali iraniane e 225 sono state segnalate da fonti non ufficiali.
Nessuno tocchi Caino ha avuto notizia di 13 esecuzioni in pubblico, un calo rispetto alle 36 del 2017.
Alle esecuzioni effettuate sulla pubblica piazza vanno aggiunte quelle più massicce e spesso avvolte dal segreto effettuate nelle prigioni.
La maggior parte è stata effettuata per omicidio, mentre negli anni precedenti le esecuzioni erano maggiormente per reati legati alla droga.
Non c’è solo la pena di morte, secondo i dettami della Sharia iraniana, ci sono anche torture, amputazioni degli arti, fustigazioni e altre punizioni crudeli, inumane e degradanti. Non si tratta di casi isolati e avvengono in aperto contrasto con il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che l’Iran ha ratificato e queste pratiche vieta.
Secondo le informazioni dell’Osservatorio sui diritti umani in Iran pubblicate nel Rapporto relativo al 2018 nel corso dell’anno sono state emesse oltre 110 sentenze di flagellazione e 11 sono state eseguite. Inoltre, è stato riportato almeno un caso di amputazione.

 

Egitto

Le impiccagioni in Egitto non possono aver luogo durante le feste nazionali o le festività religiose, tenuto anche conto della fede del condannato. Nel 2018, sono state impiccate almeno 62 persone secondo l’Organizzazione Araba per i Diritti dell’Uomo (AOHR). Di queste, 47 sono state messe a morte da tribunali civili, le restanti 15 da tribunali militari (12 per terrorismo e 3 per stupro in un ospedale militare).
Sempre nel 2018, 60 persone hanno ricevuto condanne a morte definitive in 14 casi, 12 dei quali trattati dalla Corte di Cassazione civile e gli altri 2 dalla Corte di Cassazione militare. Nel corso dell’anno, almeno 581 imputati sono stati condannati a morte in 174 casi civili e 9 casi militari secondo un rapporto pubblicato il 22 dicembre 2018 dall’Iniziativa Egiziana per i Diritti Personali (EIPR). Nel 2018, a suscitare molto scalpore, è stata un’ondata di 20 esecuzioni all’inizio dell’anno.
Il 2 gennaio 2018, l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ha espresso il suo shock per le 20 esecuzioni effettuate tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 e ha affermato che, nonostante le sfide alla sicurezza che l’Egitto deve affrontare, in particolare in Sinai, le esecuzioni non dovrebbero essere usate come mezzo per combattere il terrorismo. Ha espresso seria preoccupazione per il fatto che in tutti questi casi non siano state seguite le garanzie del giusto processo in quanto i tribunali militari in genere negano i diritti degli imputati concessi dai tribunali civili.


I
raq

Nel 2018, l’Iraq ha impiccato almeno 52 persone, tutte per terrorismo. Si tratta di un numero considerevolmente minore rispetto alle almeno 125 del 2017 e alle almeno 92 del 2016.
Invece, le condanne a morte sono più che quadruplicate, da almeno 52 nel 2017 ad almeno 271 nel 2018, secondo Amnesty International, un’impennata dovuta principalmente alla conclusione del conflitto tra lo Stato iracheno e lo “Stato Islamico”, a seguito della quale le autorità hanno arrestato e processato molte persone accusate di appartenenza al gruppo.

Pakistan

Nel 2018 sono state compiute in Pakistan almeno 14 impiccagioni secondo il Justice Project Pakistan, un significativo calo rispetto alle 66 del 2017, alle 87 impiccagioni del 2016 e il numero record di 326 del 2015 avvenute dopo che il 17 dicembre 2014 il Pakistan ha revocato una moratoria che durava da sei anni sulla pena di morte per i casi di terrorismo, a seguito del massacro perpetrato il 16 dicembre dai talebani in una scuola a conduzione militare a Peshawar, in cui sono state uccise 150 persone, tra cui 134 bambini. Le 14 impiccagioni compiute nel 2018 hanno riguardato reati come l’omicidio o lo stupro anche se in quattro casi le condanne erano state emesse dalla Corte Anti Terrorismo(ATC). Secondo la Human Rights Commission of Pakistan, nel 2018 le corti pakistane hanno emesso 346 condanne a morte, comprese 3 nei confronti di donne.

Sudan

Nel 2018, in Sudan, vi sono state due impiccagioni, le prime dopo il 2016. Due uomini non identificati sono stati impiccati per omicidio, uno nel mese di maggio e l’altro a novembre. Sono state comminate 8 nuove condanne a morte, circa la metà di quelle emesse nel 2017 (almeno 17), secondo Amnesty International.

 

LA FUCILAZIONE

Non propriamente una punizione islamica, la fucilazione è pure stata usata nei Paesi a maggioranza musulmana nel 2018.
Nel 2018, almeno 18 esecuzioni tramite fucilazione – contro le almeno 31 del 2017 – sono state effettuate in 2 Paesi a maggioranza musulmana: Somalia (13) e Yemen (almeno 5). È probabile che esecuzioni tramite fucilazione siano avvenute anche in Libia Siria, anche se non è possibile confermarlo a causa dei conflitti armati interni che si sono intensificati nel corso degli ultimi anni e della mancanza di informazioni ufficiali fornite dalle autorità.
Come “esecuzioni extragiudiziarie” andrebbero invece classificate le fucilazioni effettuate in Somalia dagli estremisti islamici di Al-Shabaab. Nel 2018, almeno altre 15 fucilazioni “legali” sono state effettuate in 5 Paesi non musulmani: Cina (numero imprecisato); Sudan del Sud (almeno 7); Bielorussia (4); Corea del Nord (almeno 3); Taiwan (1).

 

LA DECAPITAZIONE

La decapitazione come metodo “legale” per eseguire sentenze capitali in base alla Sharia è un’esclusiva dell’Arabia Saudita, che ha decapitato almeno 142 persone nel 2018. Dei giustiziati, 3 erano donne e 139 uomini; 73 cittadini sauditi e 69 stranieri, tra cui le 3 donne. La maggioranza dei giustiziati era stata condannata per omicidio (82), reati legati alla droga (57), terrorismo (1), stupro (1) e rapina a mano armata (1). Nel 2019, secondo l’ONG britannica Reprieve, l’Arabia Saudita ha compiuto 184 esecuzioni, il numero più alto degli ultimi sei anni.

 

LA LAPIDAZIONE

Ci sono 17 Paesi in cui la lapidazione è prevista dalla legge o praticata di fatto. La lapidazione è una punizione legale per l’adulterio in 11 Paesi: Arabia Saudita, Brunei Darussalam, Emirati Arabi Uniti, Iran, Mauritania, Nigeria (in un terzo dei 36 Stati del Paese), Pakistan, Qatar, Somalia, Sudan e Yemen. In alcuni Paesi, come il Brunei Darussalam, la Mauritania e il Qatar, la lapidazione non è mai stata praticata, anche se rimane legale.
In quattro dei restanti Paesi – Afghanistan, Iraq, Mali e Siria – la lapidazione non è legale, ma capi tribali, militanti islamici e altri la praticano in via extragiudiziaria.
Nella regione di Aceh in Indonesia e in Malesia, la lapidazione è prevista a livello regionale, ma vietata a livello nazionale. Nel 2018, non risultano condanne a morte “legali” eseguite tramite lapidazione. Una lapidazione extra-giudiziaria è stata invece effettuata in Somalia il 9 maggio 2018 dal gruppo estremista Al-Shabaab nei confronti di una donna accusata di aver sposato 11 uomini.

Iran

L’Iran ha avuto il tasso di lapidazioni più alto al mondo, ma nessuno sa con certezza quante persone siano state lapidate. In base a una lista compilata dalla Commissione Diritti Umani del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, almeno 150 persone sono state lapidate dal 1980 a oggi. I numeri su riportati sono molto probabilmente inferiori ai dati reali, sia perché la maggior parte delle condanne alla lapidazione è stabilita segretamente sia perché è precluso l’accesso alle informazioni in molte prigioni dell’Iran. Shadi Sadr, un avvocato iraniano difensore dei diritti umani che ha rappresentato cinque persone condannate alla lapidazione, ha detto che l’Iran ha effettuato lapidazioni segrete nelle carceri, nel deserto o la mattina molto presto nei cimiteri. Dal 2006 al 2009 la lapidazione è stata praticata almeno una volta all’anno per un totale di almeno sette esecuzioni, l’ultima delle quali effettuata il 5 marzo del 2009 nei confronti di un uomo condannato per adulterio. Nessuna notizia di esecuzione o sentenza alla lapidazione si è registrata nel 2018.

 

IL PREZZO DEL SANGUE

Secondo la legge islamica, i parenti della vittima di un delitto hanno tre possibilità: esigere l’esecuzione della sentenza, risparmiare la vita dell’assassino con la benedizione di Dio oppure concedergli la grazia in cambio di un compenso in denaro, detto Diya (prezzo del sangue).
Nel 2018, centinaia di casi capitali si sono risolti col perdono dopo il pagamento del “prezzo del sangue” in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran Pakistan.
Nel settembre 2011, l’Arabia Saudita ha deciso di triplicare la diya, mantenendo però il “prezzo del sangue” per l’assassinio di una donna la metà di quello per l’uccisione di un maschio.
Negli Emirati Arabi Uniti, il prezzo del sangue per aver causato la morte di qualcuno è normalmente di 200.000 dirham (circa 54.450 dollari). Nel giugno 2018, l’uomo d’affari di origine indiana, SP Singh Oberoi, ha salvato dall’esecuzione negli EAU 15 indiani, tra cui 14 del Punjab. Fino ad oggi, il Dott. Oberoi ha salvato 93 indiani dal braccio della morte, pagando per loro il prezzo del sangue.
La versione del “prezzo del sangue” vigente in Iran stabilisce che per una vittima donna esso sia la metà di quello di un uomo. Inoltre, se uccide una donna, un uomo non potrà essere giustiziato, anche se condannato a morte, senza che la famiglia della donna abbia prima pagato a quella dell’assassino la metà del suo “prezzo del sangue”.
Secondo Iran Human Rights, nel 2018 sono state perdonate dalle famiglie delle vittime almeno 272 persone nel braccio della morte per omicidio, a fronte di 221 casi registrati nel 2017 e 232 nel 2016.
In Pakistan nel 2018, 14 persone sono state impiccate in varie prigioni del Paese, molte di meno rispetto alle 66 del 2017, alle 87 del 2016 e al numero record di 326 del 2015. Decine di esecuzioni di condannati a morte sono state sospese, dopo il perdono concesso dai familiari delle vittime.

 

PENA DI MORTE PER BLASFEMIA E APOSTASIA

In alcuni dei 47 Paesi a maggioranza musulmana nel mondo, convertire dall’Islam ad altra religione o rinunciare all’Islam è considerato apostasia ed è tecnicamente un reato capitale. Inoltre, la pena capitale è stata estesa in base alla Sharia anche ai casi di blasfemia, cioè può essere imposta a chi offende il Profeta Maometto, altri profeti o le sacre scritture.
Secondo il rapporto Freedom of Thought 2019, pubblicato dalla International Humanist and Ethical Union (IHEU), il “reato” di apostasia risulta essere punito con la morte in 12 dei più integralisti Paesi musulmani: Afghanistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Maldive, Malesia (pur contraddicendo la legge federale, i Governi degli Stati di Kelantan e Terengganu hanno approvato, rispettivamente, nel 1993 e nel 2002 leggi che rendono l’apostasia un reato capitale), Mauritania, Nigeria (solo in dodici Stati settentrionali a maggioranza musulmana), Qatar, Sudan e Yemen. Il Pakistan non prevede la pena di morte per apostasia ma la prevede per blasfemia. Così, sarebbero 13 i Paesi in cui si può essere condannati a morte per ateismo.
Dei 47 Paesi a maggioranza musulmana, al massimo 6 consentono la pena capitale per blasfemia: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Pakistan e forse Afghanistan (dove, però, la nuova Costituzione incorpora norme sui diritti umani che contraddicono norme penali che considerano la blasfemia un reato capitale).
In altri quattro Stati, militanti islamici che agiscono come autorità religiose di alcune aree praticano la pena di morte in base alla Sharia per “reati” legati alla religione: Al-Shabaab in Somalia; Boko Haram e altri islamisti in Nigeria; i Talebani in Afghanistan; il gruppo jihadista sunnita Stato Islamico (IS) in Libia.
Nel 2018 in Mauritania non vi sono state esecuzioni, però sono state imposte tre condanne a morte, secondo Amnesty International.
Un blogger, Mohamed Mkhaïtir, condannato a morte nel dicembre 2014 per un post “blasfemo” pubblicato su Facebook, è rimasto in custodia in un luogo sconosciuto, nonostante una sentenza della corte d’appello, il 9 novembre 2017, avesse commutato la sua condanna a morte in una pena detentiva pari alla quantità di tempo che aveva già scontato.
In Pakistan sarebbero circa 1.500 le persone – musulmani e non – incriminate sulla base della controversa legge sulla blasfemia. Nessuno è stato giustiziato e molte condanne per blasfemia sono state poi respinte in appello. Però, circa 40 persone si trovano nel braccio della morte o sono state condannate all’ergastolo per blasfemia.
Inoltre, decine di persone in attesa del processo o assolte dalle accuse sono state massacrate da fanatici religiosi. Gli stessi avvocati difensori in casi di blasfemia sono stati vittime di attacchi e sono stati attaccati anche giudici che hanno prosciolto gli imputati, molti dei quali hanno trascorso anni di carcerazione preventiva in attesa della sentenza.
Nel 2018 si sono registrate decisioni di assoluzione da accuse di blasfemia come nel caso della cristiana Asia Bibi (assolta in appello dalla Corte Suprema il 31 ottobre 2018), ma si è continuato a condannare a morte.

 

PENA DI MORTE NEI CONFRONTI DI MINORI

Applicare la pena di morte a persone che avevano meno di 18 anni al momento del reato è in aperto contrasto con quanto stabilito dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo.
Nel 2018 sono stati impiccati almeno 8 minorenni al momento del fatto in Iran (almeno 7) e nel Sudan del Sud (1).
Nel 2017, erano stati giustiziati almeno 8 minorenni al momento del reato: almeno 6 in Iran e 2 in Sudan.
Il regime iraniano ha impiccato almeno altri 8 minorenni nel 2019.
Inoltre, persone che erano minorenni al momento dei loro presunti crimini sono state condannate a morte o erano ancora nel braccio della morte alla fine dell’anno in Arabia Saudita, Iran, Pakistan e Sudan del Sud.

 

PENA DI MORTE NEI CONFRONTI DELLE DONNE

Pur nella scarsità di informazioni sul numero di donne nei bracci della morte, ve ne sarebbero in almeno 27 dei Paesi che prevedono ancora la pena di morte nei propri ordinamenti: Arabia Saudita, Bahrain, Bangladesh, Cina, Egitto, Ghana, Giappone, Giordania, Guyana, India, Iran, Iraq, Kuwait, Malesia, Maldives, Pakistan, Sierra Leone, Singapore, Sri Lanka, Sudan del Sud, Taiwan, Tailandia, Tanzania, Uganda, USA, Vietnam e Zambia.
Nel 2018, sono state giustiziate almeno 14 donne in 4 Stati: Egitto (5), Iran (almeno 5), Arabia Saudita (3) e Corea del Nord (1). Nel 2017, ne erano state giustiziate almeno 18 in 4 Stati. Le donne giustiziate rappresentano lo 0,47% del totale mondiale e le loro esecuzioni si concentrano in Paesi che applicano strettamente la Sharia. È l’omicidio il principale reato per cui le donne sono andate al patibolo.
Alle almeno 14 donne giustiziate nel 2018 in Iran, Egitto, Arabia Saudita e Corea del Nord, vanno aggiunte quelle messe a morte in Cina, dove la pena di morte è considerata un segreto di Stato e le notizie di esecuzioni riportate dai giornali locali rappresentano una minima parte del fenomeno.

 

LA “GUERRA ALLA DROGA”

L’ideologia proibizionista in materia di droga ha continuato a dare un contributo consistente alla pratica della pena di morte anche nel 2018.
Nel nome della guerra alla droga, sono state effettuate almeno 110 esecuzioni (contro le almeno 344 del 2017, le almeno 338 del 2016 e le almeno 713 del 2015) in 4 Paesi: Arabia Saudita (almeno 57); Cina (almeno 15, ma il numero effettivo potrebbe essere molto più alto); Iran (almeno 27) e Singapore (11). È probabile che anche il Vietnam abbia eseguito condanne a morte per droga nel 2018, ma a causa del segreto di stato non è possibile confermarlo.
Nel 2018, almeno 247 condanne a morte per droga sono state pronunciate, anche se non eseguite, in altri 11 Stati: Bahrein (2), Bangladesh (2), Egitto (23), Indonesia (39), Iraq (1), Kuwait (2), Malesia (136), Pakistan (2), Sri Lanka (6), Tailandia (almeno 3) e Vietnam (almeno 31). Una parte significativa dei condannati sono cittadini stranieri.
Oltre 7.000 persone sono attualmente nel braccio della morte per reati di droga a livello globale, secondo Harm Reduction International (HRI).

 

LA “GUERRA AL TERRORISMO”

Il numero delle esecuzioni per terrorismo è diminuito drasticamente nel 2018 rispetto al 2017. Nel 2018, almeno 79 esecuzioni per fatti di “terrorismo” o per crimini violenti di natura politica sono state effettuate in 5 Paesi: Arabia Saudita (1), Egitto (12), Iran (almeno 13), Iraq (almeno 44) e Somalia (9). Le esecuzioni erano state almeno 250 del 2017 in 9 Paesi, almeno 182 nel 2016 in 8 Paesi e 100 nel 2015 in 12 Paesi.
È probabile che esecuzioni “legali” per terrorismo siano avvenute anche in Siria nel 2018, anche se non è possibile confermarlo.
Nel 2018, una nuova legge anti-terrorismo che espande il ricorso alla pena di morte è stata approvata in Indonesia.
Al maggio 2018, in Tunisia, il numero di persone processate e detenute per terrorismo aveva raggiunto le 1.500 unità.
Dalla loro istituzione nel gennaio 2015, i tribunali militari del Pakistan hanno condannato a morte 345 terroristi, 56 dei quali sono stati giustiziati.
Alla fine del 2018, nella base della marina militare degli Stati Uniti di Guantanamo, in una zona extraterritoriale dell’isola di Cuba, risultavano ancora detenuti 40 uomini per terrorismo: 7 sotto processo, 2 condannati da una corte militare, 5 in attesa di trasferimento all’estero “quando ricorrano le condizioni di sicurezza” e 26 in stato di detenzione “indefinita ai sensi della legge sulla detenzione di guerra”(Indefinite Law-of-War Detention).

 

LA PENA DI MORTE “TOP SECRET”

Il 17 dicembre 2018, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una nuova Risoluzione che invita gli Stati membri a stabilire una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell’abolizione della pratica.
Questa Risoluzione è stata rafforzata nella parte in cui chiede agli Stati di “rendere disponibili informazioni pertinenti, disaggregate per sesso, età, nazionalità e razza, a seconda dei casi, e altri criteri applicabili, in merito all’uso della pena di morte, tra l’altro, il numero di persone condannate a morte, il numero di persone nel braccio della morte e il numero di esecuzioni effettuate, il numero di condanne a morte annullate o commutate in appello e le informazioni su qualsiasi esecuzione programmata, che possono contribuire a possibili dibattiti nazionali e internazionali informati e trasparenti, compresi quelli sugli obblighi degli Stati relativi al uso della pena di morte”.
Molti Paesi, per lo più autoritari, non forniscono statistiche ufficiali sull’applicazione della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.
In alcuni casi, come la Cina e il Vietnam, la questione è considerata un segreto di Stato e le notizie di esecuzioni riportate dai giornali locali o da fonti indipendenti rappresentano una minima parte del fenomeno.
Anche in Bielorussia vige il segreto di Stato, retaggio della tradizione sovietica, e le notizie sulle esecuzioni filtrano dalle prigioni tramite parenti dei giustiziati o organizzazioni internazionali molto tempo dopo la data dell’esecuzione.
In Iran, dove pure non esiste segreto di Stato sulla pena di morte, le sole informazioni disponibili sulle esecuzioni sono tratte da notizie selezionate dal regime e uscite su media statali o rese pubbliche da fonti ufficiose o indipendenti. Ci sono poi situazioni in cui le esecuzioni sono tenute assolutamente nascoste dallo Stato e le notizie raramente filtrano dai giornali locali. È il caso di Corea del Nord, Egitto, Siria e Sudan del Sud. Vi sono, poi, Paesi come Arabia Saudita, Indonesia, Iraq e Singapore, dove le esecuzioni sono di dominio pubblico solo una volta che sono state effettuate, mentre familiari, avvocati e gli stessi condannati a morte sono tenuti all’oscuro di tutto. A ben vedere, in tutti questi Paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.
Vi sono, però, anche Paesi considerati “democratici”, come Giappone, India, Taiwan e gli stessi Stati Uniti, dove il sistema della pena capitale è per molti aspetti coperto da un velo di segretezza.

 

LA “CIVILTÀ” DELL’INIEZIONE LETALE

I Paesi che hanno deciso di passare dalla sedia elettrica, l’impiccagione o la fucilazione alla iniezione letale come metodo di esecuzione, hanno presentato questa “riforma” come una conquista di civiltà e un modo più umano e indolore per giustiziare i condannati a morte. La realtà è diversa.
“Nessun metodo di esecuzione può essere considerato completamente indolore”, ha detto lo Special Rapporteur dell’ONU sulla tortura, Juan Mendez, intervenendo il 23 ottobre 2012 al Comitato Diritti Umani dell’Assemblea Generale. “A seguito di un certo numero di esecuzioni negli Stati Uniti, è ormai evidente che il sistema [dell’iniezione letale], come attualmente gestito, non funziona nel modo più efficiente come previsto”, ha detto Mendez nella sua relazione, aggiungendo che “per alcuni prigionieri ci vogliono molti minuti prima di morire mentre altri cadono in preda all’angoscia”. “Nuovi studi arrivano alla conclusione che, anche se l’iniezione letale è somministrata senza errori tecnici, nei giustiziati potrebbe verificarsi uno stato di soffocamento; quindi la visione convenzionale dell’iniezione letale come una morte serena e indolore è discutibile.”
Oggi, ci sono cinque Paesi che usano o prevedono l’iniezione letale come metodo di esecuzione: Stati Uniti, Cina, Taiwan, Tailandia e Vietnam.
Nel 2018, l’iniezione letale per eseguire la pena di morte è stata utilizzata in 4 Paesi: Cina (numero imprecisato di esecuzioni), Vietnam (almeno 85), Stati Uniti (23) e Tailandia (1).