24 Giugno 2005 :
SINTESI DEL RAPPORTO 2005
La situazione ad oggi
L’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da almeno dieci anni, si è confermata anche nel 2004 e nei primi mesi del 2005.
I paesi o i territori che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica sono oggi 138. Di questi, i paesi totalmente abolizionisti sono 86; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 11; 1 paese, la Russia, in quanto membro del Consiglio d’Europa è impegnato ad abolirla e, nel frattempo, attua una moratoria delle esecuzioni; quelli che hanno introdotto una moratoria delle esecuzioni sono 5; i paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono cioè sentenze capitali da oltre dieci anni, sono 35. Dall’inizio del 2004, 3 paesi sono passati dal fronte dei mantenitori a quello a vario titolo abolizionista, mentre altri 5 hanno fatto ulteriori passi in avanti all’interno dello stesso fronte abolizionista.
I paesi mantenitori della pena di morte sono 58, a fronte dei 61 del 2003 e dei 64 del 2002.
La tendenza a un abbandono della pena di morte trova conferma anche nel fatto che diminuisce ogni anno non solo il numero dei paesi mantenitori, ma tra questi anche quello di coloro che la praticano effettivamente. Nel 2004, solo 26 di questi paesi hanno effettuato esecuzioni, a fronte dei 30 del 2003 e dei 34 nel 2002.
Di conseguenza, è diminuito anche il numero delle esecuzioni nel mondo. Nel 2004 sono state almeno 5.530, a fronte delle almeno 5.611 del 2003.
Ancora una volta, l’Asia si è confermata essere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. Se contiamo che in Cina vi sono state almeno 5.000 esecuzioni, il dato complessivo del 2004 corrisponde ad almeno 5.450 esecuzioni, in diminuzione comunque rispetto al 2003, quando ne erano state registrate almeno 5.482.
Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per le 59 persone giustiziate negli Stati Uniti, l’unico paese del continente che ha compiuto esecuzioni nel 2004, anche se sono in costante calo rispetto agli anni precedenti (erano state 65 nel 2003 e 71 nel 2002).
In Africa la pena di morte è caduta ormai in disuso: nel 2004 è stata eseguita in soli quattro paesi – Egitto, Sudan, Somalia e Uganda – dove sono state registrate almeno 16 esecuzioni contro le 60 del 2003 e le 63 del 2002 effettuate in tutto il continente.
In Europa vi è una sola macchia che deturpa l’immagine di continente totalmente libero dalla pena di morte: la Bielorussia che nel 2004 ha effettuato almeno 5 esecuzioni.
Cina, Iran e Vietnam i primi paesi boia del 2004
Dei 58 mantenitori della pena di morte, 44 sono paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. In questi paesi, nel 2004, sono state compiute almeno 5.465 esecuzioni, pari al 98,8% del totale mondiale. Un paese solo, la Cina, ne ha effettuate almeno 5.000, circa il 90,4% del totale mondiale; l’Iran ne ha effettuate almeno 197; il Vietnam almeno 82; nella Corea del Nord, il numero è imprecisato, ma siamo nell’ordine di parecchie decine; l’Arabia Saudita almeno 38; il Pakistan almeno 29; il Bangladesh almeno 12; il Kuwait almeno 9; l'Uganda 7, l’Egitto almeno 6.
Molti di questi paesi non forniscono statistiche ufficiali sulla pratica della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.
A ben vedere, in questi paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.
Sul terribile podio dei primi tre paesi che nel 2004 hanno compiuto più esecuzioni nel mondo figurano tre paesi autoritari: la Cina, l’Iran e il Vietnam.
Cina, primatista ufficiale di esecuzioni nel mondo
La pena di morte continua a essere in Cina un segreto di stato ma nel 2004, per la prima volta, una stima realistica sulla carneficina giudiziaria cinese è filtrata dall’interno dello stesso regime comunista ed è stata pubblicata da un giornale controllato dallo stato.
Secondo Chen Zhonglin, deputato al Congresso Nazionale del Popolo per la municipalità di Chongqing, “ogni anno in Cina vengono emesse circa 10.000 condanne a morte che vengono immediatamente eseguite, un dato circa cinque volte superiore a quello di tutti gli altri casi capitali di tutte le altre nazioni messe insieme.” La sua dichiarazione è uscita sul 'Quotidiano della Gioventù Cinese' del 15 marzo 2004 e conferma la Cina come primo paese boia al mondo, un primato che molto probabilmente resterà imbattuto nella storia moderna della pena di morte.
Già nel 2002, era emerso che 15.000 persone erano state mandate a morte ogni anno in Cina dal 1998 al 2001, ma la notizia era stata pubblicata in un volume, Disidai o La Quarta Generazione, scritto da un membro interno del partito che aveva usato uno pseudonimo, quello di Zong Hairen. Mentre la notizia che nel 2003 erano state giustiziate circa 5.000 persone era stata riferita da una fonte giudiziaria, rimasta anonima.
Questi dati superano ampiamente le cifre più alte stimate dagli occidentali sulle esecuzioni cinesi.
Nessuno tocchi Caino ritiene che la stima più vicina alla realtà sia, anche per il 2004, tra le 5.000 e le 10.000 esecuzioni.
Il 9 marzo 2005, davanti al Congresso Nazionale del Popolo riunito in sessione ordinaria, il capo della Procura Suprema del Popolo, Jia Chunwang, ha reso noto i risultati della repressione in Cina che nell'arco del solo 2004 ha portato in carcere più di ottocentomila persone per “minacce alla sicurezza dello Stato” oppure per “attività terroristiche, separatistiche o comunque estremistiche”.
Nel nome della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico, sono finiti nel mirino delle autorità autori di omicidi, attentati dinamitardi e incendi, ma anche il pacifico dissenso politico. ‘Minacce’ o ‘messa a repentaglio’ della sicurezza statale è la formula giuridica in forza della quale il regime comunista cinese legittima la detenzione di dissidenti e oppositori: anche nel 2004 migliaia di questi ultimi sono stati rinchiusi in prigione su tali basi, specie in Tibet e nella provincia nord-occidentale dello Xinjiang, l'ex Turkestan a maggioranza musulmana e turcofona. Numerosi separatisti uiguri sono stati condannati a morte o giustiziati nel 2004. Nel corso dell’anno e sulle stesse basi, si è inasprita pure la persecuzione dei sospetti appartenenti al Falun Gong, movimento spirituale bandito nel 1999 come “culto malvagio” e accusato di minacciare il potere del Partito Comunista.
Per prevenire ogni censura della comunità internazionale, il Governo cinese sta considerando di restituire alla Corte Suprema del Popolo il potere esclusivo di approvare le condanne a morte, come è stato fino al 1983, quando il potere di emettere gli ordini di esecuzione è stato concesso anche alle Alte Corti delle Province, che sono 300 in tutto il paese. Il cambiamento dovrebbe portare a una notevole riduzione del numero di esecuzioni praticate nel Paese.
Iran, di nuovo secondo sul podio della disumanità
Nel 2004 l’Iran è salito di nuovo sull’orribile podio olimpico dei primi paesi boia del mondo, battendo anche la prestazione dell’anno prima. Le esecuzioni sono state almeno 197, a fronte delle 154 del 2003. Si è piazzato sempre al secondo posto, dopo la Cina, anche se in rapporto alla popolazione è come se fosse arrivato primo.
I dati reali sulle esecuzioni potrebbero essere ancora più alti: le autorità non forniscono statistiche ufficiali e i numeri riportati sono relativi alle sole notizie pubblicate dai giornali iraniani, che evidentemente non riportano tutte le esecuzioni.
Nel 2004, la stampa iraniana ha riportato l’esecuzione pubblica di almeno 5 donne, tra cui una ragazza di 16 anni, Atefeh (Sahaleh) Rajabi, impiccata in pubblico a Neka il 15 agosto. L’Iran ha giustiziato almeno tre minorenni nel 2004 e altri 11 sono stati condannati a morte.
Secondo le stesse autorità, molte esecuzioni in Iran sono relative a reati di droga, ma è opinione di osservatori sui diritti umani che molti di quelli giustiziati per reati comuni, in particolare per droga, possano essere in realtà oppositori politici.
Non c’è solo la pena di morte, secondo i dettami della Sharia iraniana, ci sono anche torture, amputazioni degli arti, fustigazioni e altre punizioni crudeli, disumane e degradanti. Non si tratta di casi isolati e avvengono in aperto contrasto con il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici che l’Iran ha ratificato e queste pratiche vieta.
Vietnam
Nella graduatoria mondiale della pena di morte eseguita, il Vietnam si piazzato al terzo posto.
L’escalation di esecuzioni registrata negli ultimi anni, in particolare per reati di droga, ha raggiunto il suo culmine nel 2004. A gennaio, il governo vietnamita ha stabilito essere un reato diffondere informazioni sulla pena di morte, classificate come segreto di stato, ma in base alle notizie ricavate da media statali e da fonti giudiziarie, le condanne a morte comminate nel corso dell’anno sono state almeno 115 e almeno 82 le esecuzioni, tra cui almeno 11 nei confronti di donne. Le persone messe a morte nel 2003 erano state almeno 69. Ma il numero reale delle esecuzioni nel paese è molto probabilmente più alto di quello che filtra pubblicamente.
In alcuni casi, in particolare nelle zone rurali del Vietnam, le persone sono state processate da tribunali “ambulanti”, presieduti da funzionari giudiziari locali e all’aperto. In questi procedimenti gli imputati non godono di garanzie adeguate, raramente possono scegliersi un avvocato, il quale peraltro ha un minimo accesso al suo cliente.
Democrazia e pena di morte
Dei 58 paesi mantenitori della pena di morte, sono 14 quelli che possiamo definire di democrazia liberale, con ciò considerando non solo il sistema politico del paese, ma anche il sistema dei diritti umani, il rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello stato di diritto. Le democrazie liberali che nel 2004 hanno praticato la pena di morte sono state 4 e hanno effettuato in tutto 65 esecuzioni, pari all’1,2% del totale mondiale: Stati Uniti (59), Taiwan (3), Giappone (2) e India (1).
Nel 2004, non vi sono state esecuzioni in Mongolia, Thailandia e Botswana, gli altri tre dei sei paesi democratici che nel 2003 avevano giustiziato dei condannati a morte.
Si conferma quindi anche per quest’anno la tendenza in corso da almeno cinque anni nelle democrazie liberali ad abbandonare la pratica della pena di morte. Le esecuzioni nei paesi liberali erano state 81 nel 2003, 91 nel 2002, 97 nel 2001 e 108 nel 2000.
Nel 2004, si è confermata negli Stati Uniti la tendenza in corso da alcuni anni a una diminuzione del numero delle esecuzioni, delle condanne e dei detenuti nel braccio della morte. A fronte delle 65 del 2003, le esecuzioni nel 2004 sono state 59 e segnano un calo del 40% rispetto al 1999, anno record - con le 98 esecuzioni effettuate - nella storia moderna della pena di morte in America, dopo la sua reintroduzione nel 1976. Non si è confermata solo la diminuzione del numero delle esecuzioni, ma anche delle nuove condanne a morte pronunciate dai tribunali. Nel 2004 le sentenze capitali sono state 125 (erano state 144 nel 2003), il 54% in meno rispetto al 1999. E’ diminuito anche il numero dei detenuti nel braccio della morte che, a fronte dei 3.504 del 2003, sono scesi a 3.471, il 4% in meno rispetto al 1999.
Inoltre, dai sondaggi risulta che si sta riducendo anche il sostegno della popolazione alla pena capitale, in particolare quando è data la possibilità di scegliere tra pena di morte ed ergastolo senza condizionale. L’ultimo sondaggio della Gallup, che è del maggio 2004, ha rilevato che il 50% degli americani è a favore della pena di morte e il 46% è favorevole invece all’ergastolo senza condizionale. Nel 1997 il divario tra le due opzioni era del 32%.
Hanno contribuito a riaprire la discussione sulla pena di morte, soprattutto, le continue scoperte di errori giudiziari. Nel 2004 vi sono state altre 6 persone liberate perchè riconosciute innocenti, il che porta a 119 (al 28 febbraio 2005) il totale degli esonerati dal 1973.
Hanno inciso sicuramente sul numero delle condanne a morte e delle esecuzioni capitali le due sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2002 che hanno stabilito, l’una, l’incostituzionalità delle norme che attribuiscono a un giudice monocratico, anziché a una giuria, la decisione della pena nei casi capitali e, l’altra, che l’esecuzione di condannati a morte minorati mentali è una pena “crudele e inusuale” e per questo è incostituzionale. Il ciclo di decisioni garantiste si è chiuso, per ora, con la sentenza del 1° marzo 2005 con cui la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionale la pena di morte nei confronti di persone condannate per crimini commessi quando avevano meno di 18 anni. Una sentenza di portata storica, che allinea gli Stati Uniti al diritto internazionale, elimina un argomento di forte polemica nei loro confronti e consegna a una manciata ormai di paesi totalitari o illiberali l’esclusiva su una pratica che è vietata da tutti i trattati sui diritti umani, dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici alla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo.
Ma la vera battaglia sulla pena di morte si sta giocando a livello di legislature statali. Nel 2004, si è continuato a discutere di moratoria delle esecuzioni capitali o abolizione della pena di morte in molti dei 38 stati mantenitori della federazione americana. Si è trattato per lo più di dibattiti parlamentari legati ai dubbi su come la pena di morte viene applicata. Il fatto più rilevante a livello statale è avvenuto nel 2005 nello Stato di New York, dove il 12 aprile la Commissione Giustizia dell’Assemblea statale ha respinto con 11 voti contro 7 il progetto relativo a una nuova legge sulla pena di morte lasciando così in vigor il blocco delle esecuzioni stabilito, nel giugno 2004, dalla Corte d’Appello di Albany.
In controtendenza a quanto sta accadendo negli Stati Uniti, il Maryland ha effettuato nel 2004 la prima esecuzione dopo sei anni di moratoria di fatto, mentre il Connecticut le ha riprese nel 2005 dopo 45 anni.
Il Giappone mantiene il massimo riserbo sulle esecuzioni. I detenuti di solito non sono informati sulla data della loro esecuzione fino al giorno dell'impiccagione. Poiché vengono avvertiti solo un'ora prima, non possono incontrare i parenti o presentare un appello finale. Il governo si limita a dichiarare il numero di detenuti giustiziati, rifiutando perfino di rivelarne i nomi.
Le persone giustiziate nel 2004 sono state due, a fronte di una sola uccisa nel 2003. Le esecuzioni sono avvenute il 14 settembre e, come al solito, il Ministero della Giustizia non ha reso noti i nomi dei due uomini, che però sono stati identificati dagli organi di informazione locali come Mamoru Takuma e Sueo Shimazaki. Dopo le due impiccagioni, le autorità giapponesi hanno annunciato che continueranno a non rivelare i nomi dei giustiziati. “Bisogna, tra l'altro, tutelare la privacy delle famiglie,” ha dichiarato il ministro della Giustizia, Daizo Nozawa.
Secondo uno studio condotto da Kyodo News e basato su dati forniti da organismi giudiziari, 42 persone sono state condannate a morte da tribunali giapponesi nel 2004. A fronte delle 12 dell’anno precedente, il numero delle condanne a morte del 2004 è stato il più alto dal 1980, anno in cui i tribunali hanno cominciato a rilevare i dati.
Il 14 agosto 2004, è stata effettuata la prima esecuzione in India dopo nove anni di una moratoria di fatto. Un ex custode di 39 anni, Dhananjay Chatterjee, è stato impiccato nel carcere di Alipora a Calcutta, nel Bengala occidentale.
L'esecuzione ha necessitato il richiamo in servizio di Nata Mullick, un boia di 84 anni in pensione che, aiutato dal figlio e dal nipote, aveva detto di non aver problemi nell'eseguire la condanna.
Le ultime esecuzioni conosciute erano avvenute nel 1995, quando furono impiccate 5 persone.
Negli ultimi anni, il numero dei detenuti nel braccio della morte e dei giustiziati a Taiwan ha mostrato un chiaro declino, risultato della volontà più volte manifestata dal governo di arrivare all’abolizione della pena di morte e, più in generale, di una maggiore attenzione alla tutela dei diritti umani.
Dopo l’abrogazione nel gennaio 2002 della “Legge sui banditi”, con la quale sono state riviste anche le norme sulla obbligatorietà della pena di morte e limitato il suo campo di applicazione e l'abolizione nell’ ottobre 2002 della pena di morte per i minori di 18 anni, nel gennaio 2005 il parlamento di Taiwan ha promulgato una riforma del Codice Penale che prevede l’abolizione graduale della pena di morte.
L’evoluzione positiva nel senso su descritto si è tradotta in una drastica riduzione delle condanne a morte e delle esecuzioni nel paese. Dalle 32 esecuzioni nel 1998 si è passati alle 24 nel 1999, alle 17 nel 2000, alle 10 nel 2001, alle 9 nel 2002, alle 7 nel 2003 e alle 3 soltanto effettuate nel 2004.
L’ultima esecuzione è avvenuta nella prigione di Taichung, il 12 gennaio 2005.
Abolizioni legali, di fatto e moratorie
Il trend mondiale verso l’abolizione di diritto o di fatto della pena di morte in corso ormai da oltre dieci anni ha trovato una decisa conferma anche nel 2004 e nei primi mesi del 2005.
Dall’inizio del 2004, 3 paesi sono passati dal fronte dei mantenitori a quello a vario titolo abolizionista: il Tagikistan ha abolito totalmente la pena di morte, mentre Tanzania e Saint Vincent e Grenadine hanno superato dieci anni senza praticarla e quindi vanno considerati abolizionisti di fatto.
Altri 5 hanno fatto ulteriori passi in avanti all’interno dello stesso fronte abolizionista: Samoa, Bhutan e Senegal, già abolizionisti di fatto, sono diventati totalmente abolizionisti, mentre la Turchia e la Grecia, già abolizionisti per crimini ordinari, hanno abolito la pena di morte in tutte le circostanze.
Conferme e ulteriori progressi sono stati registrati in altri due paesi: il Kirghizistan ha prorogato di un altro anno una moratoria legale delle esecuzioni in atto dal 1998; il Senato del Messico ha approvato in seconda lettura un disegno di legge che elimina dalla Costituzione la possibilità per i tribunali militari di emettere condanne a morte.
Ulteriori passi verso l’abolizione o sviluppi positivi si sono verificati nei seguenti paesi: Algeria, Corea del Sud, Filippine, Giamaica, Guatemala, Kazakistan, Kenia, New Mexico, Nigeria, Sierra Leone, Taiwan, Uzbekistan e Zambia.
Ripristino della pena di morte e ripresa delle esecuzioni
Sul fronte opposto, dall’inizio del 2004 quattro paesi hanno ripreso le esecuzioni dopo anni di sospensione. Nel gennaio del 2004, il Libano ha ripreso le esecuzioni dopo cinque anni di moratoria di fatto. Ad aprile 2004, l’Afghanistan ha compiuto la prima esecuzione dalla caduta dei Talebani. Nell’agosto 2004, è stata effettuata la prima esecuzione in India dopo nove anni di una moratoria di fatto. Sempre ad agosto 2004, l’Indonesia ha ripreso le esecuzioni dopo tre anni di sospensione.
In controtendenza a quanto avviene negli Stati Uniti, nel giugno 2004 il Maryland ha effettuato la prima esecuzione dopo sei anni di moratoria di fatto e il 13 maggio 2005 il Connecticut ha ripreso le esecuzioni dopo 45 anni.
L’8 agosto 2004, l’Iraq ha ripristinato la pena di morte, dopo un anno di sospensione dalla caduta del regime di Saddam Hussein. Lo Sri Lanka, che ne aveva annunciato la ripresa, non ha finora effettuato nessuna esecuzione.
Il 12 giugno 2005, giustiziando quattro detenuti condannati per omicidio, l'Autorità Palestinese ha interrotto una moratoria di fatto delle esecuzioni che durava da tre anni.
Pena di morte in base alla Sharia Nel 2004, almeno 315 esecuzioni sono state effettuate in 15 paesi a maggioranza musulmana, molte delle quali ordinate da tribunali islamici in base a una stretta applicazione della Sharia. Ma il problema non è il Corano, perché non tutti i paesi islamici che a esso si ispirano praticano la pena di morte o fanno di quel testo il proprio Codice Penale, civile o, addirittura, la propria Carta fondamentale. Il problema è la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali o autoritari al fine di impedire qualsiasi processo democratico.
Dei 48 paesi a maggioranza musulmana nel mondo, 23 possono essere considerati a vario titolo abolizionisti, mentre i mantenitori della pena di morte sono 25, dei quali solo 15 l’hanno praticata nel 2004.
Impiccagione, crocifissione, decapitazione e fucilazione, sono stati i metodi con cui è stata applicata la Sharia nel 2004.
Condanne a morte tramite lapidazione sono state emesse nel 2004 solo in Nigeria e in Iran, ma nessuna è stata eseguita. Una donna è stata lapidata in Afghanistan nel 2005, ma si è trattato di una esecuzione extra-giudiziaria, effettuata dal marito della donna a seguito di una decisione di un Mullah locale.
L’alternativa alla lapidazione, in esecuzione di sentenze capitali in base alla Sharia, può essere l’impiccagione, la quale è preferita per gli uomini ma non risparmia le donne. Impiccagioni in base alla Sharia sono state effettuate nel 2004 in Iran, Kuwait, Pakistan, Siria e Sudan. L’impiccagione è spesso eseguita in pubblico e combinata a pene supplementari come la fustigazione e l’amputazione degli arti prima dell’esecuzione. E’ quel che è accaduto in molti casi in Iran, dove le esecuzioni sono state a volte contestate dalla folla chiamata ad assistervi.
La decapitazione come metodo per eseguire sentenze in base alla Sharia, è un’esclusiva dell’Arabia Saudita, il paese islamico che segue l’interpretazione più rigida della legge islamica e che fa registrare un numero di esecuzioni tra i più alti al mondo, sia in termini assoluti che in percentuale sulla popolazione. Il record è stato stabilito nel 1995 con 191 esecuzioni. Le esecuzioni nel 2004 sono state 38, il numero più basso nella storia degli ultimi anni, ma subito superato nei primi mesi del 2005 con le 42 esecuzioni già effettuate (al 18 aprile 2005).
Non propriamente una punizione islamica, la fucilazione è pure stata applicata nel 2004 in esecuzione di condanne in base alla Sharia in Pakistan, Yemen e Somalia.
Pena di morte nei confronti dei minori
Applicare la pena di morte a persone che avevano meno di 18 anni al momento del reato è in aperto contrasto con quanto stabilito dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo.
Nel 2004, sono stati giustiziati nel mondo almeno 5 minorenni: in Cina (1), Iran (3) e Pakistan (1). Un altro minorenne è stato impiccato in Iran nel gennaio del 2005.
Sebbene la legge cinese escluda espressamente l’esecuzioni di persone che abbiano commesso il reato quando avevano meno di 18 anni, minorenni hanno continuato a essere giustiziati a causa di una scarsa attenzione da parte dei tribunali nell’accertamento dell’età effettiva degli imputati.
In base alla legge iraniana, le femmine di età superiore a nove anni e i maschi con più di quindici anni sono considerati adulti e, quindi, possono essere condannati a morte, anche se le esecuzioni sono normalmente effettuate al compimento del diciottesimo anno d’età. Secondo l’avvocatessa iraniana Fahimeh Hajmohammad-Ali, nel carcere minorile di Teheran e in quello di Rajai-Shahr, al 16 gennaio 2005, c’erano almeno 30 persone condannate a morte che avevano meno 18 anni quando hanno compiuto il reato.
Nel dicembre 2004, l’Alta Corte di Lahore nel Punjab, la più popolosa provincia del Pakistan, ha abrogato la legge federale che aboliva la pena di morte per i minori di 18 anni, rendendo ammissibile l’esecuzione di bambini maggiori di sette anni. La decisione della corte di Lahore è stata impugnata di fronte alla Corte Suprema la quale, l’11 febbraio 2005, ha sospeso la sentenza in attesa di una sua decisione sulla questione. Il 30 novembre 2004, in completa violazione dell’Ordinanza sul Sistema della Giustizia Minorile del 2000, un ragazzo di nove anni, Rehmat Ali alias Raja, era stato giustiziato nel Punjab, nella prigione di Bahawalpur dove era detenuto con l’accusa di omicidio.
Nel luglio del 2004, sette detenuti minori di 18 anni erano ancora presenti nel braccio della morte delle Filippine.
Il 1° marzo 2005, dopo ventidue minori di 18 anni al momento del reato giustiziati dal 1976, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato incostituzionale questa pratica. Decidendo con 5 voti contro 4 sul caso 'Roper contro Simmons', incentrato sulla vicenda di un condannato a morte del Missouri, Christopher Simmons, che aveva ucciso a 17 anni, la Corte si è ispirata all'ottavo emendamento alla Costituzione, che vieta punizioni ritenute “crudeli o inusuali”. Dei 38 stati su 50 della Federazione, erano 19 quelli che ancora ammettevano le esecuzioni di minori. L’abolizione della pena capitale nei loro confronti ha avuto effetto immediato per circa 72 detenuti nei bracci della morte degli Stati Uniti. Il gruppo più consistente che ora sfugge all'iniezione letale è in Texas, dove sono 29 i detenuti che beneficiano della decisione. L’ultimo minorenne è stato giustiziato nel 2003, in Oklahoma, il che ha portato a 22 il numero dei minori di 18 anni al momento del reato giustiziati negli Stati Uniti dal 1976 (13 sono stati uccisi dal Texas).
La “guerra alla droga” Anche per il 2004, il proibizionismo sulle droghe ha dato un contributo consistente alla pratica della pena di morte. Nel nome della guerra alla droga e in base a leggi sempre più restrittive, sono state effettuate esecuzioni in Arabia Saudita, Cina, Kuwait, Indonesia, Iran, Singapore e Vietnam. In Thailandia, fermate quelle legali, nel corso dell’anno si è assistito a un’ondata di esecuzioni sommarie o extragiudiziarie.
Delle 38 esecuzioni del 2004 in Arabia Saudita, 14 sono state effettuate per reati di droga.
Come accade di solito in Cina in prossimità di feste nazionali e di date simboliche internazionali, decine di trafficanti di droga sono stati condannati a morte o giustiziati in occasione del 26 giugno 2004, Giornata Internazionale Contro la Droga.
Delle nove persone messe a morte in Kuwait nel 2004, due erano state condannate per traffico di droga.
Tutte e tre le esecuzioni avvenute in Indonesia nel 2004 sono state effettuate per traffico internazionale di eroina.
Secondo le stesse autorità, molte esecuzioni in Iran sono relative a reati di droga, ma è opinione di osservatori sui diritti umani che molti di quelli giustiziati per reati comuni, in particolare per droga, possano essere in realtà oppositori politici.
A Singapore la pena di morte è obbligatoria per il traffico di 15 grammi o più di eroina, 30 grammi di cocaina o 500 grammi di cannabis Il governo, di solito molto restio a fornire dati sulla applicazione della pena di morte, ha reso noto il 30 gennaio 2004 che tra il 1998 e il 2003 sono state giustiziate 138 persone, 110 delle quali punite per reati di droga.
Nel 2004, si è registrata in Vietnam una escalation nell’applicazione della pena di morte e delle 82 esecuzioni pubblicate da media statali almeno 44 sono state effettuate per traffico di droga.
Le ultime esecuzioni legali in Thailandia sono state effettuate nel dicembre 2003 proprio nei confronti di tre presunti spacciatori di droga, per i quali era stato inaugurato il nuovo metodo di esecuzione tramite iniezione letale. Fermate quelle legali, nel corso del 2004 si è assistito a un’ondata di esecuzioni sommarie o extragiudiziarie. Il 3 ottobre 2004, il capo del governo Thaksin ha annunciato una nuova fase della guerra alla droga, promettendo “misure brutali” contro i trafficanti, considerati un pericolo per la sicurezza sociale e nazionale.
La “guerra al terrorismo”
Nel 2004, proposte di legge antiterrorismo che prevedono l’applicazione della pena di morte e una restrizione delle libertà pubbliche e dei diritti civili, sono state approvate in Qatar, Bangladesh e negli Emirati Arabi Uniti. Paesi come Indonesia e India hanno, invece, rivisto in senso garantista la loro legislazione antiterrorismo. Una proposta di legge che prevede la pena di morte per azioni “terroristiche” è stata presentata dal governo del Bahrein nell’aprile del 2005.
In nome della lotta al terrorismo e “legittimati” dalla partecipazione alla Grande Coalizione nata in seguito agli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti, paesi autoritari e illiberali hanno continuato nella violazione dei diritti umani al proprio interno e, in alcuni casi, hanno giustiziato e perseguitato persone in realtà coinvolte solo nella opposizione pacifica o in attività sgradite al regime. Ciò è avvenuto, in particolare, in Cina nei confronti di leader musulmani Uiguri del movimento che lotta per uno stato indipendente nel Turkestan Orientale. In base ai suoi stessi dati, le autorità cinesi hanno comminato 50 condanne a morte da gennaio ad agosto 2004 per attività separatiste. La persecuzione di appartenenti a movimenti religiosi o spirituali Nel 2004, sono continuati in alcuni paesi gli attacchi, gli interrogatori, le incarcerazioni e i maltrattamenti fisici nei confronti di membri di movimenti religiosi o spirituali non autorizzati dallo Stato.
In Cina, centinaia di luoghi di culto, moschee “clandestine”, templi tibetani, seminari, chiese cattoliche e chiese protestanti “domestiche”, sono stati chiusi dalla polizia e, in alcuni casi, demoliti. Centinaia di migliaia di praticanti del Falun Gong sono ancora costretti in prigione, nei campi di rieducazione o nei manicomi dove sono stati sottoposti al “lavaggio del cervello”. Da quando è iniziata la persecuzione nei loro confronti nel luglio del 1999 fino ad aprile 2005, il Falun Gong ha denunciato 1.880 morti, avvenute spesso a seguito di torture e maltrattamenti subiti in carcere. Nel 2004, gruppi religiosi e per la difesa dei diritti umani fuori dalla Corea del Nord hanno continuato a fornire informazioni relative alla persecuzione di protestanti, cattolici, buddisti e membri di chiese cristiane clandestine. Fedeli cristiani sono stati imprigionati, picchiati, torturati o uccisi per aver letto la Bibbia e predicato su Dio, in particolare per aver avuto legami con gruppi evangelici operanti oltre confine in Cina.
La dura persecuzione iniziata nel 1998 nei confronti dei cristiani del Laos è continuata nel 2004. Intimidazioni sono state messe in atto in tutto il paese e molti fedeli sono stati imprigionati. Alcuni di loro sono stati costretti a sottoscrivere forme di abiura dalla loro religione. Alcuni altri sono stati messi alla prova e costretti a partecipare a rituali animisti, fumare, bere alcol e sangue.
Non si è interrotta nel 2004 la campagna condotta in Vietnam contro le chiese cristiane “illegali”, “contaminate dai protestanti americani e quindi contrarie agli interessi del paese”. Particolarmente dura la repressione nei confronti dei Montagnard, la minoranza etnica di religione cristiana che abita gli altipiani centrali. Nella giornata del 10 aprile 2004, in occasione della Pasqua, migliaia di Montagnard hanno condotto manifestazioni pacifiche sugli altipiani centrali per chiedere la fine degli anni di persecuzione religiosa, di confisca delle terre ancestrali e di negazione di autonomia politica che hanno subito. Le forze paramilitari vietnamite hanno attaccato i manifestanti. In una dichiarazione del 22 aprile 2004, Human Rights Watch ha riferito di “decine di protestanti feriti durante le manifestazioni”, con alcuni di loro “picchiati a morte”.
Palestina, pena di morte ed esecuzioni sommarie per collaborazione con Israele
Da quando l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è stata istituita nel 1994, sono stati giustiziati undici palestinesi, di cui due per aver “collaborato” con Israele. Le ultime esecuzioni legali in Palestina sono state quattro, sono avvenute il 12 giugno 2005 e tutte per omicidio. Ma, in dieci anni di vita dell’ANP, oltre 100 palestinesi, sospettati di aver collaborato con Israele, sono stati linciati o fucilati per strada, la maggior parte ad opera di membri del gruppo della fazione di Fatah dell’attuale Presidente dell’Autorità Mahmoud Abbas (Abu Mazen), le Brigate dei Martiri di Al Aksa, che sono andate a prenderli nelle loro case, nei commissariati, nel carcere in cui erano detenuti o nelle aule di giustizia dove venivano processati.
Secondo il Palestinian Human Rights Monitoring Group, 19 palestinesi sono stati “giustiziati” in questo modo nel 2004. Altri 6 “collaboratori” sono stati uccisi sommariamente nei primi due mesi del 2005.
Delle otto condanne a morte emesse dai tribunali dell’ANP nel 2004, tre sono state per “collaborazionismo” nei confronti di Israele.
Secondo una notizia non smentita uscita sul Jerusalem Post del 16 febbraio 2005, il Presidente Abu Mazen ha autorizzato l’esecuzione di tre palestinesi condannati a morte per aver “collaborato” con Israele. Se i tre presunti collaborazionisti venissero giustiziati sarebbe la prima volta che accade dopo le due esecuzioni effettuate nel 2001 e autorizzate da Yasser Arafat. Dopo quelle esecuzioni, l’Autorità Palestinese aveva assicurato alla Unione Europea che non ce ne sarebbero state altre. Il 4 maggio 2005, in risposta all’interrogazione presentata dagli europarlamentari Marco Pannella e Emma Bonino, la Commissione europea ha dichiarato di essere estremamente preoccupata dalla prospettiva di una ripresa delle esecuzioni in Palestina e ha invitato l’Autorità a non ratificare e a non eseguire nessuna condanna a morte.
La pena di morte “top secret”
Molti paesi, per lo più autoritari, non forniscono statistiche ufficiali sulla applicazione della pena di morte.
In Cina e Vietnam la questione è considerata per legge un segreto di stato e le notizie di esecuzioni riportate dai giornali locali rappresentano una minima parte del fenomeno.
In piena continuità con la tradizione sovietica, la pena di morte è considerata un segreto di stato anche in Bielorussia, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. In questi paesi i dati disponibili su condanne a morte ed esecuzioni sono quelli forniti da organizzazioni internazionali oppure relativi solo a notizie uscite su media statali o dalle prigioni tramite parenti dei giustiziati. Anche qui il numero reale delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.
In quasi tutti i paesi autoritari, dall’Egitto all’Iran, allo Yemen o al Sudan, dove pure non esiste segreto di stato sulla pena di morte, il governo non pubblica statistiche nè fornisce dati ufficiali. Le sole informazioni disponibili sulle esecuzioni sono tratte da notizie uscite su media statali che evidentemente non riportano tutti i fatti. Ci sono poi situazioni in cui le esecuzioni sono tenute assolutamente nascoste e le notizie non filtrano nemmeno dai giornali locali. È il caso della Corea del Nord e della Siria.
Vi sono paesi, infine, dove le esecuzioni sono di dominio pubblico solo una volta che sono state effettuate. I familiari, gli avvocati e gli stessi detenuti condannati a morte, sono tenuti all’oscuro del giorno in cui sarà eseguita la sentenza. E’ quel che avviene ad esempio in Arabia Saudita e Giappone.
La “civiltà” dell’iniezione letale
I paesi che hanno deciso recentemente di passare dalla sedia elettrica, dall’impiccagione o dalla fucilazione alla iniezione letale come metodo di esecuzione, hanno presentato il cambio come una conquista di civiltà e un modo più umano e indolore per giustiziare i condannati a morte. La realtà è diversa.
Il 15 aprile 2005, l'autorevole rivista scientifica The Lancet ha divulgato una ricerca dell’Università di Miami secondo la quale la procedura seguita negli istituti penitenziari degli Stati Uniti che applicano la pena di morte per iniezione letale infligge sofferenze e dolori atroci ai condannati. Secondo il gruppo di ricercatori dell'istituto di Medicina Miller dell'Università di Miami, il modo in cui vengono praticate le iniezioni non è in linea neppure con gli standard utilizzati dai veterinari per la soppressione degli animali. Prima dell'iniezione del veleno che ne provocherà la morte per soffocamento, al condannato viene oggi praticata un'anestesia per ridurre al minimo il dolore fisico che altrimenti risulterebbe particolarmente devastante. Esaminando i dati degli esami post-mortem compiuti sul sangue di 49 carcerati uccisi in Arizona, Georgia e nella Carolina del Nord e del Sud, i ricercatori hanno trovato in 43 casi una dose di anestetico inferiore a quella normalmente usata per gli interventi chirurgici. In 21 casi, la concentrazione era tale da far dire che i prigionieri potevano essere coscienti quando è stato iniettato loro il veleno. È possibile che alcuni fossero del tutto svegli e dunque hanno dovuto sopportare impotenti, senza muoversi e respirare, mentre il cianuro di potassio bruciava nelle vene.
Nel 1997, la Cina ha introdotto il metodo dell’iniezione letale (applicata per la prima volta nello Yunnan) e, di recente, in molte Province sono state allestite delle unità mobili su dei furgoni opportunamente modificati che raggiungono il luogo dell’esecuzione. Il furgone della morte è una comune camionetta della polizia bianca e blu, al cui interno si trova un lettino che si alza e abbassa come un tavolo operatorio. In un raro racconto pubblicato su un giornale di un’esecuzione avvenuta il 19 gennaio 2005 a Liaoyang, la capitale della Provincia di Liaoning, si legge che il condannato, Li Jiao, dopo il verdetto, è stato portato in un luogo nei pressi del tribunale, a circa 10 minuti di guida. I furgoni, che costano 48.000 euro ciascuno, sono dotati di televisione a circuito chiuso, il che ha permesso di trasmettere in diretta l’esecuzione di Li ai membri locali del Congresso Nazionale del Popolo, riuniti nella camera mortuaria della città. Questo tipo di furgoni circolano in diverse province, sono “sistemi puliti e semplici”, definiti “progresso” dai funzionari cinesi. La morte con iniezione costa allo Stato circa 92 euro, ma è gratis per i parenti della vittima, che una volta dovevano pagare il costo della pallottola che aveva ucciso il proprio caro. Il metodo dell’iniezione letale è stato usato nel 2004 in Cina a mo’ di legge del contrappasso nei confronti di grossi trafficanti di eroina ma anche di piccoli spacciatori.
Boia cercasi
Anche nel 2004, è accaduto in alcuni stati che la penuria di boia abbia impedito o ritardato l’esecuzione di condanne a morte.
In Bangladesh, in mancanza di boia ufficiali, si è pensato di far ricorso a detenuti “affidabili”. Le esecuzioni nel 2004 sono state 12, una delle quali è stata portata a termine per mano di un detenuto del carcere. La prima impiccagione del 2005, avvenuta il 6 maggio, è stata affidata a quattro detenuti di un’altra prigione, adeguatamente preparati.
In India, per la prima esecuzione dopo nove anni di una moratoria di fatto, è stato richiamato un boia di 84 anni in pensione che, aiutato dal figlio e dal nipote, aveva detto di non aver problemi nell'eseguire la condanna.
A Papua Nuova Guinea e in Uganda, gli operatori penitenziari hanno obiettato che il mestiere di boia contravviene ai loro doveri che sono garantire la sicurezza delle carceri e la riabilitazione dei detenuti. Nel febbraio 2003, le guardie carcerarie e i dirigenti della prigione di Bomana a Papua avevano comunicato che non avrebbero impiccato un detenuto per omicidio e che il giudice responsabile della condanna a morte avrebbe dovuto “eseguirla lui stesso”. Il 24 novembre 2004, funzionari del carcere della contea di Kawolo, in Uganda, hanno chiesto al governo di assumere del personale esterno per impiccare i detenuti nel braccio della morte. “Quando rimangono in carcere per un lungo periodo, questi detenuti diventano per noi come dei parenti. Impiccandoli ci sembrerebbe di impiccare dei nostri familiari,” ha detto il direttore del carcere, John Ssenjobe.
In Malesia, si è pensato a un incentivo economico. Nel marzo 2005, i funzionari delle prigioni malesi addetti alle impiccagioni e alle fustigazioni hanno ricevuto un aumento di paga. Per ogni impiccagione, il boia riceverà 490 Ringgits malesi (circa 100 euro) al posto dei 300 Ringgits (60 euro) di prima. Per ogni colpo di canna di bambù riceveranno 10 Ringgits (2 euro) al posto dei 3 Ringgits (60 centesimi) di prima.
LE PROSPETTIVE DELLA CAMPAGNA PER LA MORATORIA ONU DELLE ESECUZIONI
Il 20 aprile 2005, per il nono anno consecutivo, la Commissione Onu per i Diritti Umani ha approvato la risoluzione contro la pena di morte presentata dall’Unione Europea. Il numero record di cosponsor, 81, ottenuto quest’anno a Ginevra testimonia del fatto che una risoluzione con gli stessi contenuti potrebbe essere approvata anche subito dall’Assemblea Generale dell’Onu a New York. Ma l’analisi dei dati evidenzia anche il limite rappresentato oggi dall’Unione Europea nella possibilità di sviluppare e rafforzare l’iniziativa internazionale contro la pena di morte. Per la prima volta quest’anno, non vi è stato nessun nuovo co-patrocinatore, segno evidente che l’Unione Europea rappresenta ormai un ostacolo e non un elemento di forza nel prosieguo dell’iniziativa in sede Onu. Non è stata in grado, infatti, di tenere insieme i 92 paesi che nell’arco di questi anni hanno sostenuto l’iniziativa all’Onu e tanto meno è riuscita a suscitare nuove simpatie.
La posizione dell’Unione Europea, diventata sempre più dubbiosa nel corso degli anni, è oggi decisamente contraria al passaggio della risoluzione pro moratoria in Assemblea Generale. E’ dell’avviso che sia più prudente aspettare finché non ci sarà un maggior consenso internazionale e una previsione di voto favorevole in Assemblea non solo certa nella maggioranza, ma prossima all’unanimità. Non considera, l’Unione Europea, che una decisione a favore della moratoria da parte dell’organismo maggiormente rappresentativo della Comunità Internazionale, seppure presa a maggioranza, avrebbe l’indiscutibile effetto di consolidare l’opinione mondiale della necessità di mettere al bando le esecuzioni capitali così contribuendo allo sviluppo dell’intero sistema dei diritti umani.
In base alle previsioni di voto di Nessuno tocchi Caino, una proposta di “moratoria universale delle esecuzioni, in vista dell’abolizione della pena di morte”, passerà con la maggioranza assoluta dei voti: tra i 95 e i 103 paesi voteranno a favore, tra i 19 e i 27 si asterranno, tra i 62 e i 69 voteranno contro. Un emendamento tendente a riaffermare il primato della “giurisdizione interna” su questa come su altre materie inerenti ai diritti umani, che sarà certamente avanzato da Egitto e Singapore e altri paesi mantenitori, sarà respinto con 94 voti contrari, 75 voti a favore e 20 astensioni e 2 paesi indecisi tra voto contrario e astensione.
Sono dati che illustrano un sicuro e ampio successo in Assemblea Generale. Ma, di fronte a tante titubanze e cautele, è forse giunto il momento di prendere atto dell’inadeguatezza dell’Unione Europea nel condurre a buon fine l’iniziativa e di constatare che, per dare nuova e maggiore forza in vista soprattutto della presentazione della risoluzione pro moratoria al Palazzo di Vetro, è necessario creare una “coalizione” di paesi promotori che veda coinvolti stati rappresentativi di tutti continenti, non solo europei e occidentali.
In fondo, il fronte abolizionista non ha le sue basi solo in Europa.
Le Americhe sono un continente praticamente libero dalla pena di morte. Nel Sud ci sono paesi che l’hanno abolita oltre un secolo fa, ad esempio, il Venezuela che l’ha formalmente abolita nel 1863, il primo stato moderno a farlo. In centro-america, il Messico è il paese che più si è esposto a livello internazionale contro la pena di morte. Nel 2001, la Corte Suprema ha stabilito per la prima volta che è incostituzionale estradare cittadini messicani in paesi dove rischiano l’ergastolo, non solo la pena di morte.
In Africa la pena di morte è caduta ormai in disuso. La situazione è totalmente cambiata negli ultimi anni: su 53 paesi, quelli mantenitori si sono ridotti a 21 e il trend appare ancora più significativo se si considera che nel 1990 vi era un solo paese abolizionista per legge, Capo Verde. Oggi, quelli che hanno abolito completamente la pena di morte sono 12, tra cui il Senegal che lo ha fatto il 10 dicembre scorso, scegliendo la data più simbolica, quella della Giornata Mondiale dei Diritti Umani.
Anche se l’Asia si è confermata nel 2004 essere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo, non mancano esempi che vanno in senso opposto. In Asia centrale, dopo l’abolizione avvenuta nel febbraio 2005 in Tagikistan, è rimasto solo l'Uzbekistan fra le cinque repubbliche ex sovietiche a praticare la pena di morte. Nel sud-est asiatico, è emblematico il caso di Timor Est, il primo Stato venuto alla luce nel terzo millennio all’insegna dell’abolizione totale della pena di morte.
Australia e Nuova Zelanda sono stati in questi anni gli sponsor più fedeli della risoluzione a Ginevra e potranno svolgere un ruolo decisivo nei confronti dei piccoli paesi della regione e in vista di un voto all’Onu.
Per quanto riguarda l’Europa, i segnali sono contrastanti. Mentre dalla Gran Bretagna sembrano giungere - in termini di posizioni di Governo e di società civile - le più forti resistenze alla moratoria Onu delle esecuzioni capitali, in Spagna il parlamento ha approvato nell’ottobre 2004, all’unanimità, una mozione che impegna il governo a compiere questo passo già alla prossima Assemblea Generale. L’Italia che, nel 1994, è stata la prima a portare all’attenzione dell’Assemblea Generale la proposta di moratoria per poi, nel 1999, consegnare il testimone all’Unione Europea nella speranza di dare così maggior forza alla battaglia per la moratoria, ha tutti i titoli per riassumerla a fronte dell’impasse in cui l’Europa attualmente si trova.
Grazie alla moratoria ONU - e in attesa dell’abolizione mondiale e totale - migliaia di condannati a morte potrebbero essere risparmiati: non solo quelli di cui tutti sanno e si preoccupano, i detenuti nei bracci americani, ma anche gli innominati e i dimenticati della pena di morte, i detenuti nei bracci della morte cinesi, iraniani, vietnamiti e di tutti gli altri regimi autoritari che muoiono ammazzati nel silenzio e nell’indifferenza generali.