28 Giugno 2025 :
Vito Cimiotta* su l’Unità del 28 giugno 2025
Due baci sulla guancia. È bastato questo gesto, antico quanto il linguaggio umano, per generare un caso che ha dell’incredibile. Nel carcere di Bancali, a Sassari, l’avvocato Flavio Rossi Albertini – noto per la sua rigorosa attività di difesa dei diritti fondamentali, anche nei contesti più spinosi – ha salutato il proprio assistito Alfredo Cospito con un semplice, sobrio gesto di affetto. Non in segreto. Non di nascosto. Alla luce del giorno, in presenza della polizia penitenziaria. Eppure, quel gesto è stato ritenuto così sconveniente da meritare una segnalazione al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati da parte del direttore del carcere. Non una denuncia. Non un illecito penale. Ma una sanzione morale travestita da atto disciplinare. Come se riconoscere, anche solo per un istante, la dignità residua di un detenuto sottoposto al 41-bis fosse, di per sé, un atto sospetto.
Nella nostra tradizione culturale, il saluto ha un valore che trascende la forma. È il gesto che inaugura la relazione, che afferma: “Tu esisti per me”. Quando tutto è privazione, isolamento, controllo, quel gesto – per quanto semplice – assume un significato profondo. Non è una concessione emotiva, ma una dichiarazione di principio: anche nella durezza della pena, la persona non cessa di esistere.
Dire che “il saluto lo ha lasciato Dio” è un modo per denunciare l’inquietante deriva in cui persino i gesti minimi di riconoscimento umano vengono guardati con sospetto. Un saluto, in un carcere, può diventare sovversivo solo in un contesto in cui l’umanità è già stata esiliata.
L’avvocato non è un burocrate del processo. È, costituzionalmente, un soggetto essenziale della giurisdizione, e come tale non può essere ridotto a ingranaggio freddo e impersonale. Difendere un imputato non significa approvare le sue idee, né assolvere i suoi atti. Significa garantire che anche il nemico dello Stato sia protetto dalle regole dello Stato. È in questo paradosso – che è anche la gloria del diritto – che si misura la civiltà giuridica di un Paese.
Flavio Rossi Albertini ha semplicemente interpretato fino in fondo il suo ruolo: non quello dell’amico o del complice, ma quello dell’avvocato. E l’avvocato, quando agisce con umanità, rafforza – non indebolisce – lo Stato di diritto. La segnalazione all’Ordine appare più come una forma di censura morale che come un legittimo atto di vigilanza deontologica. È una sanzione simbolica rivolta a chi ha osato non disumanizzare il proprio assistito. A chi ha sfidato – con due baci – la liturgia del sospetto, il culto dell’impersonalità, la religione della distanza.
Ma un ordinamento giuridico che ha paura del saluto, che reprime l’umanità, è un ordinamento che comincia a perdere sé stesso. Un saluto, quello del difensore, a chi, da dietro le sbarre, continua a interrogarsi sul senso della vita. La pena non cancella la dignità, né spegne l’umanità. Per il difensore, il compito non è solo giuridico, ma profondamente umano: riconoscere la persona oltre l’errore, l’uomo oltre il reato. Difendere è credere che ogni vita possa riscattarsi, che il diritto serva anche a ricostruire. In quell’incontro nasce una forma di speranza: fragile, ma autentica.
Oggi non è sotto accusa un bacio. È sotto accusa l’idea che anche nel carcere, anche nel 41-bis, esista un confine che la durezza non deve superare: quello della disumanizzazione. Se oggi permettiamo che l’avvocato venga colpito per aver semplicemente salutato, domani accetteremo che la difesa stessa venga gradualmente neutralizzata, depotenziata, delegittimata.
La Costituzione non impone all’avvocato di essere distante, indifferente, senz’anima. Gli impone di essere libero. E in uno Stato libero, due baci non dovrebbero far tremare
nessuno. Semmai, dovrebbero ricordarci che il diritto – senza l’umanità – non è altro che un freddo strumento di potere.
* Segretario Camera Penale di Marsala