03 Gennaio 2011 :
Sergio D’EliaSegretario di Nessuno tocchi Caino
Dopo quattordici anni di lotta nonviolenta e di azione politica, parlamentare, istituzionale e di opinione pubblica, siamo finalmente riusciti a ottenere il pronunciamento dell’Assemblea Generale dell’ONU a favore di una Moratoria Universale delle esecuzioni capitali.
Il 18 dicembre 2007, non è stato quindi un fulmine a ciel sereno, ma il momento conclusivo di quasi tre lustri di impegno di Nessuno Tocchi Caino e del Partito Radicale Nonviolento, che questo obiettivo hanno storicamente proposto, in tutte le sedi internazionali e attraverso tutti i Governi che si sono succeduti dal 1994 a oggi. E’ stato il risultato dell’opera di formiche che abbiamo concorso a creare per riuscire a compiere – dopo il rinvio di anno in anno, che ha rischiato di divenire l’‘anno del mai’ – quello a cui le Nazioni Unite erano pronte da quattordici anni: votare e, quindi, manifestare la loro posizione pro moratoria indiscutibilmente maggioritaria al Palazzo di Vetro.
Nel 1994, la prima volta che fu presentata a New York, la proposta italiana di moratoria fu battuta per otto voti sol perché mancarono quelli di 21 Governi europei.
Nel 1997 e nel 1998, il Governo di Romano Prodi, nonostante la fortissima contrarietà di quasi tutti i partner europei, presentò la risoluzione alla Commissione Diritti Umani di Ginevra che l’approvò con la maggioranza assoluta dei voti.
Nel 1999, riproposta in Assemblea Generale dall’Unione Europea in quanto tale, l’iniziativa “fallì” non perché fu sconfitta ai voti, ma perché all’ultimo minuto venne da Bruxelles l’ordine di ritirare la risoluzione già depositata. Per Francesco Paolo Fulci, all’epoca ambasciatore e grande protagonista al Palazzo di Vetro delle battaglie dell’Italia contro la pena di morte, fu una “scusa” quella di chi allora disse che non c’erano i voti. “Posso assicurare che non era così, perché io personalmente avevo contattato più di novanta ambasciatori, ricevendone assicurazione che sarebbero stati dalla nostra parte,” ha ribadito anche di recente Fulci.
Nel 2003, la Presidenza italiana dell’Unione Europea verificò la fondatezza delle previsioni di voto di Nessuno tocchi Caino, che allora stimava tra i 95 e i 101 i voti favorevoli a una risoluzione pro moratoria. “Siamo arrivati a quota 99 intenzioni di voto positivo e poi ci siamo fermati,” dichiarò in parlamento l’allora Sottosegretario per i Diritti Umani del Governo italiano, Margherita Boniver. L’esito del sondaggio venne comunicato ai partner europei., ma la risoluzione non fu presentata – disse il Ministro Franco Frattini davanti al Parlamento europeo – “per la contrarietà dell’Unione Europea,” anche se l’allora Presidente della Commissione Romano Prodi si era espresso decisamente a favore.
L’attendibilità delle previsioni che Nessuno tocchi Caino ha continuato a elaborare, documentare nei suoi rapporti annuali e regolarmente e ufficialmente fornire ai Governi membri dell’Unione Europea, è stata confermata esattamente e puntualmente dal risultato della votazione del 18 dicembre scorso, che ha visto 104 Paesi dei 192 membri delle Nazioni Unite esprimersi a favore, 54 dire ‘no’ e 29 astenersi.
Con la teoria di fatti che abbiamo messo in fila, in particolare nell’ultimo anno e mezzo di una campagna “esemplare” per la completezza e ricchezza di strumenti, metodi, forme, fronti, piani e leve di lotta politica radicale attivati, abbiamo cercato di governare, nella prassi e in supplenza, quello che i Governi europei si rivelavano scandalosamente inadeguati a fare.
Per sostenere e aiutare il nostro Governo a ottenere l’obiettivo storico, umanamente oltre che politicamente rilevante della moratoria universale delle esecuzioni capitali, abbiamo promosso iniziative politiche, istituzionali, manifestazioni quali la Marcia di Pasqua a San Pietro, scioperi della fame e altre iniziative nonviolente.
Abbiamo presentato tre risoluzioni alla Camera dei Deputati e tre risoluzioni al Parlamento Europeo ottenendo che fossero approvate a stragrande maggioranza o addirittura all’unanimità. Abbiamo inviato decine di lettere al Governo italiano, alle Presidenze di turno e ai Governi dell’Unione Europea per suggerire i passi necessari e urgenti per allargare il consenso all’iniziativa anche in altri continenti.
Abbiamo raccolto decine di migliaia di sottoscrizioni in 158 Paesi, tra cui quelle di 55 Premi Nobel e personalità internazionali della cultura, centinaia di parlamentari da tutto il mondo e, per le istituzioni italiane, Presidenti dei Gruppi parlamentari, Senatori a vita e Presidenti di Regione, che – riconoscendo la leadership dei Governi e del Movimento Pro Moratoria italiani – hanno sostenuto Romano Prodi incoraggiandolo a procedere alla presentazione della Risoluzione al Palazzo di Vetro.
Il successo dell’iniziativa italiana è stato anche il frutto di come noi radicali abbiamo “vissuto”, dato corpo – letteralmente! – alla campagna per la Moratoria nel suo ultimo miglio, nell’anno che ha preceduto il voto all’ONU. A partire da Marco Pannella e dal suo sciopero della sete di otto giorni per salvare la vita di Saddam Hussein, subito convertito sull’obiettivo più generale della Moratoria perché non venisse dissipato un tragico momento quale è stata la sua impiccagione, con l’immensa carica di scandalo e sollevazione dell’opinione pubblica anche araba che quell’evento aveva suscitato. Gli effetti della campagna “Nessuno tocchi Saddam” si sono visti anche in sede ONU al momento del voto sulla moratoria, alla quale alcuni Paesi arabi non si sono opposti, contravvenendo alle indicazioni della Conferenza Islamica che premeva per un voto contrario.
Ricordiamo, inoltre, lo sciopero della fame “a oltranza”, formula inedita nella tradizione radicale, che dirigenti e militanti radicali hanno condotto – a due riprese e per complessivi 89 giorni – per chiedere il rispetto della parola data, della legalità e del diritto che gli stessi Governi europei avevano fissato, decretato e assunto davanti al parlamento. Contemporaneamente, parlamentari e dirigenti radicali hanno anche dovuto “occupare” la Rai per cinque giorni e cinque notti per affermare il diritto dei cittadini italiani a essere informati sulla campagna in corso e sulla grande occasione che si stava rischiando di perdere, una iniziativa nonviolenta che il Presidente del servizio pubblico radio-televisivo bollò invece come “un grave danno” per l’azienda.
Con queste manifestazioni che emblematicamente costituiscono l’opposto di forme ricattatorie e sostituiscono quelle dell’ostentazione dei muscoli, gli “oltranzisti” dello sciopero della fame Lucio Bertè, Guido Biancardi, Sergio D’Elia, Marco Pannella, Michele Rana, Claudia Sterzi, Valter Vecellio e i “danneggiatori” della Rai Marco Beltrandi, Rita Bernardini, Marco Cappato, Maria Antonietta Coscioni Farina, Sergio D’Elia, Bruno Mellano, Sergio Stanzani, Maurizio Turco, non hanno fatto altro che cercare, non solo politicamente, di trasferire le loro energie e la loro forza a quel potere che manifestamente andava incoraggiato a fare quello che poteva e che doveva fare.
Essendo l’iniziativa nonviolenta, come è proprio della forma e del metodo di lotta radicale, volta non a vincere, ma a convincere, a “vincere con”, siamo felici che essa sia servita e abbia aiutato il nostro Governo, il Ministro degli Esteri Massimo D’Alema e lo staff della Farnesina egregiamente coordinato dall’Ambasciatore Giulio Terzi, per con-vincere, nel giugno 2007, il Consiglio Affari Generali dell’UE a prendere – grazie anche alla ferma presa di posizione della Francia di Kouchner che Emma Bonino aveva contribuito a determinare e far convergere sulla posizione del Ministro D’Alema – l’impegno formale a presentare, a nome di una coalizione mondiale, la risoluzione per la moratoria all’apertura dell’Assemblea Generale di settembre.
Il connotato trans-regionale della iniziativa pro moratoria, che con il Governo italiano – e grazie anche ai risultati positivi della missione in Africa di Aldo Ajello – siamo riusciti politicamente e formalmente ad acquisire, non solo per affermare l’universalità della richiesta ma anche per superare un vecchio schema di stampo colonialistico ed eurocentrico non più presentabile e degno di tale grande obiettivo, ha segnato il successo del 18 dicembre al Palazzo di Vetro. Di questa impostazione, l’Ambasciatore Marcello Spatafora e il consigliere Stefano Gatti della missione italiana, insieme al nostro “ambasciatore” a New York Matteo Mecacci, sono stati i più fedeli interpreti sul campo e, in definitiva, artefici del successo.
Come pure ha segnato il successo dell’iniziativa la determinazione italiana a indicare chiarissimamente nel dispositivo della risoluzione la richiesta di moratoria delle esecuzioni e non di abolizione della pena di morte.
Finalità costitutiva di Nessuno tocchi Caino, la moratoria, e non l’abolizione tout court, prima che un obiettivo è la scelta di un metodo – democratico, liberale, non “autoritario” – di lotta alla pena di morte. Perché, come in guerra la tregua è il passaggio in cui si negozia, regolamenta e, quindi, si prepara la fine della guerra, così nella pratica della pena di morte la moratoria può essere una “tregua”, il tempo – politico e tecnico, legislativo e di confronto civile – che si guadagna e che occorre per creare un “nuovo possibile” e per arrivare, come di solito accade, anche all’abolizione completa e definitiva. Il Sudafrica, infatti ad esempio, ha abolito la pena di morte dopo cinque anni di moratoria; quasi tutte le abolizioni degli ultimi dieci anni nel mondo sono giunte dopo anni di moratorie legali o di fatto. E l’abolizione potrà essere tanto più vicina e tanto più potrà durare nel tempo quanto più sarà concepita – metodologicamente e secondo un processo democratico – nella informazione e consapevolezza delle opinioni pubbliche, da un lato e nel rispetto delle regole e dei tempi per cambiare costituzioni, leggi e codici, dall’altro. Perché i dittatori possono decidere di abolire la pena di morte dalla sera alla mattina, come pure possono decidere di reintrodurla dalla mattina alla sera.
Questa impostazione transnazionale e anti-fondamentalista della campagna pro moratoria ha dato maggiore respiro all’iniziativa evitando che fosse percepita come un’imposizione dei “civilizzati” europei nei confronti del resto del mondo, i “barbari” da “civilizzare”. Non è un caso che anche Paesi che mantenevano la pena di morte come il Burundi o l’Uzbekistan si siano schierati a favore della Risoluzione e che altri abbiano deciso di non opporsi astenendosi, come hanno fatto il Ciad, la Guinea Equatoriale, la Guinea, gli Emirati Arabi, il Libano o il Vietnam.
Il voto all’ONU sulla Moratoria Universale delle esecuzioni, non ha significato solo l’inizio della fine dello Stato-Caino, l’avvio di una riforma della giustizia nel segno della nonviolenza e nella coerenza tra mezzi e fini, ma ha segnato anche il superamento del principio ottocentesco della sovranità assoluta dello Stato-Nazione. Nel respingere tutti gli emendamenti sulla “sovranità interna”, dando così priorità ai diritti umani e individuali rispetto al potere assoluto degli Stati, le Nazioni Unite hanno infatti tracciato un altro segmento di Stato di Diritto e di giurisdizione internazionale dopo quello tracciato con l’istituzione dei tribunali internazionali per i crimini contro l’umanità, un successo, anche questo, ottenuto grazie all’opera di formiche del Partito Radicale, di Emma Bonino e dell’associazione radicale “Non c’è Pace senza Giustizia”.
Un altro dato di grande rilevanza politica emerso dalla votazione in Assemblea Generale, è stata la bocciatura degli emendamenti tendenti a equiparare la pena di morte all’aborto. Il dibattito sulla questione ha anche fatto emergere alcune convergenze emblematiche. Presentati da Egitto, Bahrein, Iran, Kuwait, Libia, Arabia Saudita e Sudan, gli emendamenti volti a introdurre nella risoluzione sulla moratoria, in nome del diritto alla vita, il riferimento anche al diritto dei “bambini non nati”, sono stati appoggiati dallo Stato Città del Vaticano. Intervenendo nel dibattito, il rappresentante della Santa Sede ha infatti richiamato gli Stati ad “adottare una visione coerente del diritto alla vita”, manifestando “ugualmente il loro sostegno per la protezione della vita del nascituro.” Sulla pena di morte il portavoce vaticano non era stato così netto: “dovrebbe verificarsi solo quando il suo uso è necessario a proteggere la società contro un aggressore,” anche se “il bisogno di ricorrere a tale ultima pena è diventato non solo raro, ma praticamente inesistente.” Rigettando gli emendamenti con un voto di 84 a 26 che non lascia dubbi, le Nazioni Unite hanno invece inteso distinguere nettamente tra il fatto che lo Stato possa disporre della vita dei suoi cittadini e la scelta individuale, libera e responsabile di una persona di abortire.
Ora, con il voto del 18 dicembre, è come se avessimo chiuso un contratto e, come avviene nei contratti, le difficoltà iniziano dopo la firma, quando si tratta di dargli applicazione. L’Assemblea Generale dell’ONU, infatti, non ha imposto né poteva imporre la moratoria ad alcuno dei suoi Stati membri. Quella risoluzione possiede invece uno straordinario valore di principio e di indirizzo politico; è una “linea guida” per chi ancora pratica la pena di morte. Le Nazioni Unite hanno stabilito per la prima volta che la questione della pena capitale attiene alla sfera dei diritti della persona e non della giustizia interna, e che il suo superamento segna un importante progresso nel sistema dei diritti umani.
Ma occorre guardare avanti e, come Pier Paolo Pasolini ci invitava a fare, “dimenticare subito i grandi successi.” Il lavoro duro comincia ora. Bisogna raddoppiare gli sforzi per evitare che questo successo sia consumato e logorato, per arrivare, attraverso le moratorie, all’abolizione definitiva della pena capitale.
Il solo annuncio della iniziativa al Palazzo di Vetro aveva già provocato nell’ultimo anno molti fatti positivi a cui se ne sono aggiunti altri nei primi mesi di quest’anno, come documenta questo Rapporto 2008 di Nessuno tocchi Caino che abbiamo inviato al Segretario Generale dell’ONU incaricato di presentare alla Assemblea Generale di settembre un rapporto dettagliato sull’implementazione della risoluzione nei Paesi che ancora applicano la pena di morte.
Intanto, il Kirghizistan ha abolito la pena di morte dopo anni di moratoria; il Ruanda, da “mantenitore”, è divenuto un Paese totalmente abolizionista; l’Uzbekistan è passato da mantenitore ad abolizionista; proprio alla vigilia del voto, il New Jersey è diventato il primo Stato Usa in quarant’anni ad abolire la pena di morte; mentre le Comore, la Corea del Sud, la Guyana e lo Zambia hanno superato anche il 2007, il decimo anno consecutivo, senza praticare la pena di morte e quindi vanno considerati abolizionisti di fatto. Tre Paesi africani, – Gabon, Burundi e Mali – hanno annunciato l’imminente abolizione della pena capitale. Passi significativi verso l’abolizione o fatti comunque positivi come commutazioni collettive di pene capitali si sono verificati in Camerun, Congo, Ghana, Kazakistan, Malawi, Marocco, Repubblica Democratica del Congo e Tanzania, Paesi che, non a caso, non si sono opposti alla risoluzione pro moratoria. Che nel corso del 2007 e nei primi mesi del 2008 le condanne a morte emesse dai tribunali cinesi siano diminuite fino al 30%, che Cuba abbia commutato tutte le condanne a morte e che lo stesso abbia deciso di fare il Pakistan a beneficio di circa 7.000 prigionieri nel braccio della morte tra i più popolosi al mondo, sono fatti che, certo, non preludono all’abolizione immediata della pena di morte né a cambiamenti radicali in senso democratico in questi Paesi, ma di fatto vanno nella direzione indicata dalla Risoluzione delle Nazioni Unite sulla moratoria universale delle esecuzioni capitali.
Si tratta di diffondere la risoluzione nel mondo, continuare a monitorare la situazione Paese per Paese, organizzare eventi politici, parlamentari e pubblici in Paesi mantenitori perché sia accolta l’indicazione dell’ONU. Il Partito Radicale e Nessuno tocchi Caino sono già impegnati in progetti per l’attuazione della moratoria su diversi fronti caldi: l’Africa, dove vi è il numero più alto di Paesi abolizionisti di fatto e dove negli ultimi due anni sono stati fatti passi significativi verso l’abolizione; le Repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale; il Sud est asiatico...
Come espressamente prevede l’ultimo punto del dispositivo della risoluzione approvata a dicembre, la prossima Assemblea Generale dovrà ritornare sull’argomento. I principali responsabili del fatto che, fino al 2007, è stato impedito alle Nazioni Unite di proclamare la moratoria sono già all’opera per fare dell’appuntamento in autunno a New York un passaggio solo procedurale o, all’opposto, tentare di cambiare il dispositivo della risoluzione per “rafforzarlo” nel senso dell’abolizione.
Perché la posizione dell’ONU sia rafforzata, basta che essa sia consolidata attraverso pronunce successive nei prossimi anni che ribadiscano la richiesta di moratoria, che costituisce la “via maestra” per giungere all’abolizione della pena di morte. Ma c’è un punto di sostanza con cui la nuova risoluzione può essere davvero politicamente rafforzata: l’abolizione non della pena di morte, ma del segreto di Stato sulla pena di morte. Occorre sin da subito ottenere che nel dispositivo della nuova risoluzione sia presente la richiesta a tutti gli Stati mantenitori di rendere effettivamente disponili al Segretario Generale dell’ONU e all’opinione pubblica tutte le informazioni riguardanti la pena capitale e le esecuzioni. A tal fine è bene che la nuova risoluzione preveda la figura di un Inviato Speciale del Segretario Generale, che abbia il compito non solo di monitorare la situazione, ma anche di favorire e accelerare i processi interni ai vari Paesi volti a soddisfare la richiesta delle Nazioni Unite di moratoria delle esecuzioni oltre che di una maggiore trasparenza nel sistema della pena capitale.
Molti Paesi, per lo più autoritari, non forniscono statistiche ufficiali sulla sua applicazione, e la mancanza di informazione dell’opinione pubblica al riguardo è anche così causa diretta di un maggior numero di esecuzioni. In alcuni casi, come la Cina e il Vietnam, dove la questione è coperta dal segreto di Stato, le notizie di esecuzioni riportate dai giornali locali o da fonti indipendenti descrivono solo una parte del fenomeno. In Bielorussia e Mongolia, dove vige il segreto di Stato, retaggio della tradizione sovietica, le notizie sulle esecuzioni filtrano dalle prigioni tramite parenti dei giustiziati o organizzazioni internazionali molto tempo dopo la loro esecuzione. In quasi tutti gli altri Paesi autoritari, dall’Iran, allo Yemen, al Sudan, dove pure non esiste segreto di Stato sulla pena di morte, le sole informazioni disponibili sulle esecuzioni sono tratte da notizie uscite su media statali o da fonti ufficiose o indipendenti, che evidentemente non riportano tutti i fatti. Ci sono poi situazioni in cui le esecuzioni sono tenute assolutamente nascoste e le notizie non filtrano nemmeno sui giornali locali. È il caso della Corea del Nord. Vi sono, infine, Paesi come Arabia Saudita, Botswana e Giappone, dove le esecuzioni sono di dominio pubblico solo una volta che sono state effettuate, mentre familiari, avvocati e gli stessi condannati a morte sono tenuti all’oscuro di tutto.
A ben vedere, in questi Paesi, la soluzione definitiva del problema, più che la pena di morte, riguarda la Democrazia, lo Stato di Diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.
E’ questo il senso del primo Grande Satyagraha mondiale per la Pace, la Libertà e la Democrazia che ci vede impegnati su fronti diversi ma con lo stesso obiettivo: promuovere il rispetto da parte degli Stati di quei diritti naturali storicamente acquisiti e spesso scritti nelle leggi dei Paesi ma non rispettati. Che siano i diritti dei Tibetani, degli Uiguri o dei Falun Gong, l’obiettivo è la libertà in Cina; che siano quelli dei Montagnard cristiani o dei monaci buddisti, la questione è la Democrazia in Vietnam; che si tratti dei problemi di Israele, della Palestina, del Libano o del Marocco, la soluzione è quella federalista e mediterranea della Patria Europea, alternativa all’Europa delle Patrie, alla realtà di Stati-Nazione in cui è degradata e, forse, ormai distrutta la Comunità Europea.
Come è proprio delle lotte nonviolente, il nostro Satyagraha non è “contro” qualcosa, ma “per” qualcosa; così come con la moratoria sulla pena di morte noi non eravamo, non siamo, contro un istituto seppur aberrante, ma perché lo Stato cessi di essere Caino, responsabile e testimone di quella perversione secondo cui la vita si difende infliggendo la morte.