Introduzione

01 Gennaio 1999 :

Non c´ ormai conferenza internazionale che si rispetti, da Seattle a Davos, passando per i vertici semestrali dell´Unione europea, che non venga presa di mira dal movimento anti-globalizzazione, da quella galassia di organizzazioni nelle cui frange estreme militano gli esaltati che pensano, spaccando le vetrine dei Mc Donald davanti alle telecamere gi schierate, di colpire al cuore l´"orco mondialista".
L´avversione profonda che sento di fronte a queste ricorrenti spedizioni punitive del cosiddetto "popolo di Seattle" non nasce solo dalla mia istintiva ripugnanza nei confronti di qualsiasi ricorso alla violenza in politica. Con questa demonizzazione ottusa della globalizzazione, come si trattasse di un complotto da sventare e non gi di una mutazione epocale con cui imparare a convivere, si rischia infatti di perdere di vista alcuni vantaggi sostanziali che un mondo senza pi frontiere offre, non soltanto alle odiate multinazionali "del profitto", ma anche a movimenti come il nostro che non avrei difficolt a considerare una multinazionale "del diritto".
Come non accorgersi infatti che nell´era della globalizzazione dei mercati, e anzi proprio in virt di tale globalizzazione di merci e capitali, l´umanit intera potrebbe finalmente avviare la mondializzazione dei valori e dei principi sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani?
Non impresa facile, certo, perch a differenza di merci e capitali i diritti umani stentano a varcare certi confini. E anche perch, secondo l´assioma di ogni dittatura, quella dei diritti umani una cultura "relativa", non assoluta n universale, suscettibile di diverse interpretazioni a seconda delle latitudini e dei paesi. D´altro canto, non manca nemmeno fra noi occidentali chi alimenta l´idea che certi valori, sui cui si fondano i diritti umani, non sarebbero effettivamente universali, che andrebbero sottoposti alla verifica di ciascuna realt locale: con il che si rischia un multiculturalismo un po´ ipocrita e autolesionista che in nome del rispetto di chiunque "altro" finisce per rinnegare quel patrimonio di valori universali su cui si regge l´esistenza stessa delle Nazioni Unite.
Resto dell´idea che sia pur sempre meglio la mondializzazione cui assistiamo, imperfetta e incompleta, allo status quo dei muri che non cadono, oltre i quali la libert e la democrazia sono negati. Meglio i dibattiti, e i miraggi, evocati a Davos, per intenderci, che una realt come quella cinese, il cui simbolo rimane una Grande Muraglia ancora invalicabile, politicamente ed economicamente. Proprio per questo, d´altra parte, va considerata una buona notizia l´adesione della Cina all´ Organizzazione Mondiale del Commercio, dove sar obbligata a confrontarsi con realt ed opinioni assai diverse da quelle su cui da tanto tempo si regge il sistema totalitario instaurato dal partito comunista cinese.
Oggi, per imprimere nuovo impulso alla battaglia globale in difesa dei diritti fondamentali e in particolare a quella per l´abolizione della pena di morte, basterebbe attribuire ai diritti delle persone la stessa attenzione e lo stesso trattamento che riserviamo alle merci, ed proprio in questo senso che la campagna di Toscani "We, on death row" mi sembra esemplare. Basterebbe includere sistematicamente la voce diritti umani nel "paniere" di beni e capitali che sta al centro degli scambi internazionali. E´ al raggiungimento di questo obiettivo, a ben vedere, che mirano quei "nuovi attori internazionali" che a partire dagli anni Novanta, sempre pi sistematicamente, affiancano e incalzano la diplomazia classica delle cancellerie e dei pi tradizionali addetti ai lavori. Mi riferisco alle organizzazioni non governative, ai tribunali internazionali, alle agenzie umanitarie, ai movimenti ambientalisti.
Se c´ una novit di rilievo nelle relazioni internazionali contemporanee, questa la fine del monopolio che i governi e le loro cancellerie hanno esercitato per secoli sulla diplomazia. Sono testimone diretta di questa mutazione, dato che ho vissuto l´intero arco degli anni Novanta costantemente immersa in una dimensione internazionale: vuoi come dirigente del Partito Radicale Transnazionale, vuoi alle Nazioni Unite, fra coloro che cercavano di dare corpo a una giustizia internazionale organizzata in forma permanente; come commissaria europea responsabile tra l´altro degli aiuti umanitari dal ´95 al ´99 e dopo di allora come parlamentare europea.
Si pensi alla lunga battaglia condotta alle Nazioni Unite da Nessuno tocchi Caino e dal Partito Radicale Transnazionale per la moratoria e l´abolizione della pena di morte, cio a una campagna "globale" in cui l´attivismo militante, seppur in sostanziale sinergia con le istituzioni, stato il vero motore del dialogo ininterrotto fra abolizionisti e mantenitori della pena capitale, in virt del quale la moratoria finalmente apparsa come un possibile minimo comune denominatore tra le due parti. Un compromesso grazie al quale i paesi che hanno abolito il patibolo fanno un passo verso quelli che ancora lo mantengono nei propri codici e che possono - senza dover modificare le leggi - semplicemente decidere di non eseguire le sentenze capitali.
Abbiamo iniziato questa battaglia in un contesto mondiale dominato dai paesi mantenitori della pena di morte e noi venivamo considerati degli utopisti, dei sognatori. E invece l´utopia si materializzata: siamo riusciti infatti a convincere dapprima il governo italiano e poi l´intera famiglia dell´Unione europea che valeva la pena di incardinare in seno alle Nazioni Unite questa battaglia per la dignit della persona umana. Non un successo da poco per una famiglia politica come quella radicale che non si stanca di denunciare i guasti prodotti sulla scena internazionale dai piccoli e grandi cinismi che ispirano la Realpolitik (spesso le dittature ne sono figlie o se ne nutrono) e proclama la necessit di una Idealpolitik, di una diplomazia saldamente ancorata ad alcuni valori e principi universali la cui affermazione e la cui difesa sono una delle principali ragioni per cui esistono le Nazioni Unite. Non lo dico per recitare la parte dell´anima bella ma perch sono convinta che la "diplomazia etica" , nel medio e lungo termine, pi sostenibile politicamente (perch non pu essere difesa senza imbarazzi di fronte ai parlamenti e alle opinioni pubbliche) e pi conveniente sul piano economico (perch le dittature e in generale gli uomini che calpestano la legalit sono partner meno affidabili rispetto a chi rispetta le regole). Insomma, difendere i diritti umani conviene, alla politica come all´economia, che proprio per questo avrebbero interesse di promuoverne e sostenerne lo sviluppo.
Vedo una controprova di quel che dico nell´evoluzione dei rapporti fra l´Unione Europea e la Turchia. Io giudico positivamente l´accettazione da parte dell´Ue della candidatura turca, perch la candidatura stessa - mentre emargina forze estremiste come i "Lupi Grigi" e gli integralisti musulmani - costituisce un impegno da parte delle autorit turche verso la piena democratizzazione del paese e verso il pieno rispetto dei diritti umani. Tanto vero che alla candidatura ha fatto seguito l´annuncio di una profonda riforma giudiziaria che include l´abolizione della pena capitale e ha creato le condizioni per salvare la vita di Ocalan e delle decine di condannati a morte in attesa di esecuzione.
Questa linea europea, che definirei del dialogo e del compromesso creativo, appare tanto pi utile e giusta se si ripensa all´avvilente voltafaccia con cui l´Ue determin nel 1999 all´Assemblea Generale dell´Onu - in nome di una male intesa "fermezza" - il fallimento di un proposta di moratoria universale delle esecuzioni che essa stessa aveva patrocinato e decise all´ultimo minuto di ritirare.
Non di una "battaglia persa" si tratt allora ma di una vittoria gi a portata di mano, cui si rinunci per il timore che la battaglia finale potesse mettere in imbarazzo partner a diverso titolo importanti come Stati Uniti, Cina, Giappone. La cosa pi grave fu il tentativo assai maldestro di giustificare quella rinuncia a combattere facendola passare come una decisione ispirata dalla fedelt ai principi, dal rifiuto di un compromesso proposto con molta buona volont dal Messico e bollato come "inaccettabile".
Ma proprio questo il punto: l´Europa doveva dire s al compromesso perch era accettabile; doveva dire s al dialogo perch questo il compito dei governi, soprattutto nelle vertenze internazionali che riguardano i diritti umani. Difendere la sacralit di ogni parola e di ogni virgola di un documento in generale un errore, che pu diventare uno scandaloso espediente quando nasconde, come accadde nel ´99, secondi fini non confessabili.
La conquista e la difesa di un nuovo diritto non possono nascere dalla contrapposizione fra culture giuridiche "buone" e "cattive" n dallo scontro fra massimalismi giuridici e pregiudizi ideologici. Non possono essere imposte per decreto. La conquista e la difesa di un nuovo diritto devono essere il risultato di un percorso comune, reso possibile dalla ricerca paziente di un minimo comun denominatore.
Sulla pena di morte questo punto di partenza comune esiste ed il principio affermato per quattro anni consecutivi dalla Commissione diritti umani dell´Onu in base al quale "l´abolizione della pena di morte contribuisce all´innalzamento della dignit umana e al progressivo sviluppo dei diritti umani". Credo sia un concetto di straordinaria portata ed importanza perch ci ricorda come mobilitare le coscienze contro la pena capitale sia innanzitutto mobilitare la nostra coscienza in difesa di noi stessi e della nostra dignit di persone umane: perch l´applicazione della pena di morte in nome della societ rende noi tutti, membri della societ, moralmente simili al criminale che vogliamo punire.
Occorre continuare dunque su questa strada ed operare affinch i 15 dell´Unione europea riaprano, senza irrigidimenti ideologici, il dialogo coi paesi mantenitori della pena capitale riportando in Assemblea Generale, perch sia finalmente approvata la proposta di una moratoria universale. Un simile pronunciamento sancirebbe una nuova conquista dell´umanit, una nuova soglia di inviolabilit della persona, l´affermazione che la giustizia non pu ispirarsi alla vendetta.