L’ILLUSIONE DI CAMBIARE IL MONDO CON IL FRAGORE DELLE ARMI

Cesare Battisti

27 Settembre 2025 :

Cesare Battisti su l’Unità del 27 settembre 2025


Ritrovarsi in una cella tanto tempo dopo a ricordare fatti e malfatti successi mezzo secolo prima, rianimare il contesto che li ha generati e risentire gli umori e le speranze che li hanno accompagnati. Fare questo sforzo di memoria senza cedere alla tentazione di piegare gli avvenimenti a propria convenienza è una lotta che mi fa trascurare perfino il carcere. I suoi deleteri effetti, con l’addio interminabile alla vita e il tormento dei familiari, che stanno fuori ad aspettare e non potranno mai capire il prezzo che stanno pagando per un debito contratto in un passato che loro non hanno mai vissuto.
Non c’è una lingua per dire la sofferenza di chi a sua volta ha fatto soffrire. Pretendere, invano, ricordare sé stesso con la distanza di uno sconosciuto, non mi eviterà di cadere in un vittimismo paradossale e, comunque, le mie parole non scalfiranno il corso di una storia già avvelenata e archiviata. È difficile rievocare il passato quando i legami con la libertà, che in prigione non servono ad altro che a far soffrire, sono stati relegati in un cassetto del quale non si possiede più la chiave. Non voglio dire che si riesca sempre, a fingere di dimenticare, tanto basta una parola, un gesto, un’espressione, un accenno musicale che fluttua nell’aria a sballottarci da un capo all’altro della nostra vita. E poi, con il tempo, in carcere si impara a immagazzinare i ricordi che ingombrano, è questione di allenamento, di atroci forzature.
La decisione di forzare il cassetto dei ricordi non è stata presa alla leggera. Non ho ubbidito a nessun impulso creativo, nessuna necessità impellente di sedersi a tavolino per scrivere una storia nuova. È stato qualcos’altro che mi ha obbligato a farlo, un groviglio di emozioni altrettanto forti ma diverse da quelle che ho già sentito correre sul filo di un romanzo. C’è dietro a questo travaglio una ragione che mi sfugge perché non mi appartiene, non sono stato io a decidere, a maturarla. Lo faccio e ciò che ne traggo non è il godimento per l’opera compiuta, obbedisco a un sentimento che mi fa sentire dentro un’altra persona.
Scrivere, bene o male, serve a scoprire una parte di sé stesso, ma che piacere potrei trarre dallo scoprire che quello che ho fatto coincide solo in parte con chi realmente sono e che rimarrà sempre il lato oscuro. Detto così, sembrerebbe un’ovvietà, ma questo è quanto di più palese viene fuori al ripercorrere il cammino inverso di ciò che sono stato.
Volevamo cambiare il mondo e per questo ci siamo arrogati il diritto di vita e di morte sulle persone. Sembrava radicalmente onesto, fondamentale, ma adesso, una riga dopo l’altra, scopro che non era nemmeno necessario conoscerci a fondo e investirci interamente per credere a quello che abbiamo fatto. Bastava quella parte di noi rivolta alla politica, alla pubblica approvazione, avere un sentimento di appartenenza con il mondo in movimento era sufficiente. Andavamo incontro alla nostra fine e lo facevamo perché credevamo che dovesse essere fatto, era la fede nella lotta, credevamo alle sue virtù.
Ci ha creduto fino alla morte il mio caro amico e fratello Roberto e con lui le donne e gli uomini con i quali ci riunivamo nel suo appartamento di ringhiera di quella via annerita dalla miseria, affianco alla stazione Centrale di Milano. Ho la certezza che ci credessero anche i nostri vicini del Meridione con i quali, oltre allo stesso bagno sulla ringhiera, condividevamo ammiccamenti, musica e qualche piatto di pasta al sugo la domenica. Ci ho creduto e ci credo ancora, non più al fragore delle armi, che mi hanno sempre e solo visto correre, ma all’umanità che ritrovavo in loro compagnia e che nella clandestinità mi faceva sentire più vicino a casa, con i miei. Erano innanzitutto uomini e donne, eravamo i giovani che invece di mordere la Mela destinata ai pochi ne volevamo fare una piantagione per offrirla a tutti. Ha funzionato per un po’, ma è costato caro, quasi a tutti.

 

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