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COSA STA SUCCEDENDO IN SOMALIA E PERCHÉ DA 10 ANNI SI COMBATTE SENZA SOSTA

4 luglio 2021:

Sergio D’Elia su Il Riformista del 2 luglio 2021

La Somalia è la terra africana dove la storia millenaria di Caino e Abele continua a rappresentare una tragica attualità. I nemici dello Stato si chiamano Al-Shabaab. Lo Stato che li combatte è diviso in altrettanti Stati, tutti gelosi della loro indipendenza, uniti solo nella lotta senza quartiere al terrorismo islamico. Da oltre dieci anni gli uni, i “buoni”, si confrontano con gli altri, i “cattivi”. Si combattono senza sosta e si somigliano nella sostanza. La catena infinita dell’odio e della vendetta è un gioco di specchi delle parti in causa nel quale il bene e il male si confondono, il giusto e lo sbagliato si annullano.
La stessa legge, quella del taglione, ispira gli uni e gli altri, gli islamisti e gli anti-islamisti. L’amalgama di sistemi giuridici, di tradizioni e diritto consuetudinario, un tempo, disegnava un codice molto più civile della legge della Sharia che la Somalia a un certo punto ha introdotto nel tentativo di placare l’ira degli Al-Shabaab. Alla mossa politica “pacifista” del governo, gli estremisti islamici hanno corrisposto con una ferocia ulteriore e un integralismo religioso rafforzato. Gli Al-Shabaab hanno decapitato o fucilato centinaia di persone: cristiani o apostati dell’Islam, ladri, adulteri e maghi, spie al servizio del governo somalo, della forza militare dell’Unione Africana, della CIA e dell’MI6 inglese. La scena è sempre la stessa: un sedicente giudice coranico emette la condanna a morte davanti a centinaia di residenti convocati con gli altoparlanti al centro della città e costretti ad assistere all’esecuzione dei malcapitati legati a un palo. Dopo
  l’esecuzione, gli Al-Shabaab seppelliscono le vittime in luoghi chiamati “cimiteri degli infedeli”.
Il governo somalo risponde in automatico, e con una violenza uguale e contraria. Processi da giustizia sommaria sono celebrati da tribunali militari che operano ad ampio spettro e non vanno molto per il sottile. Non solo processano soldati accusati di reati militari, ma anche soldati, poliziotti, combattenti di Al-Shabaab e civili accusati di reati comuni. La velocità con cui le condanne a morte sono eseguite impedisce agli imputati di presentare ricorso e al Presidente di esaminare il caso per una possibile grazia o commutazione della pena. Anche le Nazioni Unite hanno espresso la propria preoccupazione per il “frettoloso” procedimento giudiziario che ha portato a decine di esecuzioni.
Domenica scorsa, nell’arco di una sola giornata, la Somalia ha vissuto una sequenza impressionante di azioni e reazioni, di cause ed effetti, di delitti e vendette. Al mattino, cento islamisti hanno attaccato Wisil, una piccola città nello stato di Galmudug. Al-Shabaab ha rivendicato l’azione che avrebbe causato 34 vittime tra le forze di sicurezza. Circa due ore dopo l’attacco a Wisil, le autorità dello stato del Puntland hanno giustiziato 21 uomini accusati di appartenere ad Al-Shabaab. Il giorno prima, il ministro della sicurezza del Puntland era sfuggito a un attentato dinamitardo di Al-Shabaab che avevano preso di mira il suo corteo di auto.
I 21 giustiziati per vendetta erano stati condannati in processi separati per una serie di omicidi e attacchi terroristici che sono costati la vita a leader regionali e comunitari, agenti di sicurezza e giornalisti. Diciotto di loro sono stati allineati vicino a una collina di sabbia fuori dalla città di Galkayo. Il plotone di esecuzione ha aperto il fuoco, giustiziandoli. Nelle stesse ore, altri tre uomini sono stati fucilati a Garowe e nella città di Qardho. È stata la più grande esecuzione singola di militanti di Al-Shabaab in Somalia. Domenica pomeriggio, un altro plotone d’esecuzione, stavolta di Al-Shabaab, ha giustiziato in pubblico sei persone, tra cui una donna di 36 anni, Fartun Omar Abkow. Erano accusate di spionaggio per conto della CIA e sono state fucilate in una piazza nella città di Sakow, nella regione del Medio Jubba. È stata la vendetta degli Al-Shabaab per l’esecuzione dei suoi militanti nel Puntland.
A New York, al Palazzo di Vetro, la Somalia ha sempre votato a favore della moratoria sulla pena di morte. A Mogadiscio, non hai mai smesso di praticarla presso l’Accademia di polizia del generale Kahiye. In questi anni, la comunità internazionale non gli ha mai chiesto conto di questa doppiezza. Anzi, ha continuato ad assistere la Somalia nel peggiore dei modi. Con il paternalismo della cooperazione allo sviluppo ha speso molto in “aiuto umanitario” e investito poco in Stato di Diritto. Con il militarismo nella lotta al terrorismo ha affidato la giustizia ai plotoni d’esecuzione dell’esercito somalo e ha praticato in proprio quella segreta e più sbrigativa delle uccisioni coi missili sparati dai droni. Occhio per occhio, la Somalia è diventata oggi un Paese accecato dall’odio, paralizzato dalla paura, desertificato dalla violenza. Una terra dove abita solo Caino. Sperando contro ogni speranza, scriviamo ora un’altra storia, in cui a emergere siano il diritto e la coscienza, grazia e giustizia.

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