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L’ERGASTOLO A VADIM SHISHIMARIN

23 maggio 2022:

Sergio D’Elia

È una forma di giustizia che fa letteralmente pena quella dell’ergastolo inflitto al sergente Vadim Shishimarin, il primo soldato russo processato per crimini di guerra in Ucraina. Vadim ha commesso un fatto orribile: nei suoi primi giorni di guerra ha tolto la vita a un uomo inerme e sconosciuto. Lo stato ucraino, in un aberrante rendiconto, ha condannato alla pena di morte viva un uomo nei suoi primi vent’anni di vita. È apparso in tribunale, chiuso, inerme e spaurito come un passerotto in una gabbia. Alla violenza, al dolore, alla disperazione del crimine di guerra, si è corrisposto in proporzione uguale e contraria con il castigo esemplare, pacificatore. Con il fine pena mai, la pena terribile, senza fine, senza speranza, fino alla morte.
Non c’è pace senza giustizia, è vero, è giusto dirlo. Ma se la giustizia è questa, la pace può essere terrificante quanto una guerra. Non si annuncia nulla di buono per il dopo-guerra che non sia stato pensato, pre-visto, fatto per bene e per il bene prima, molto tempo prima, quando ancora impera il male, la violenza, il terrore. Occorre pensare oggi, sentire oggi, agire oggi, vivere nel modo e nel senso in vogliamo domani accadano le cose.
Se la risposta al male è questo bene, se il corrispettivo del torto è questo diritto, se il contrappeso di un reato militare è questo giudizio civile, la pace che si annuncia sarà quella del deserto, della solitudine, dell’abbandono. La “geopolitica” – la politica della terra – che si invoca sarà quella della terra bruciata, della terra di nessuno, di un mondo senza vita, senza amore, senza speranza.
Questo ergastolo è una pena, letteralmente, “diabolica”: essa pone in mezzo ostacoli, divide, separa, e sarà causa di ulteriori conflitti e divisioni. Questo ergastolo è davvero la “catena perpetua” – come lo traducono in Spagna – di un ciclo di odi, violenze e vendette senza fine. L’altra parte farà a suo modo giustizia, reagirà con altrettanto violenza, con pene di morte e pene fino alla morte.
Cosa occorreva fare nei confronti di Vadim? Condannarlo a vivere, non condannarlo a vita. Occorreva uscire dalla logica rettiliana della giustizia penale, del delitto e del castigo. Occorreva scongiurare la maledizione dei mezzi sbagliati che distruggono i fini giusti. Occorreva mettere in circolazione e usare parole e strumenti di segno diverso, coerenti coi fini che si vogliono affermare. A partire dal caso del povero Vadim, l’Ucraina avrebbe potuto mostrare, prefigurare e, forse, già costruire qualcosa di diverso dalla violenza omicida e suicida di chi l’ha aggredita. Invece di essere il cambiamento, il futuro, il diritto e la pace che vuole vedere affermati sulla sua terra e nel mondo, l’Ucraina ha pensato a un tribunale di guerra, a un processo popolare, a un giudizio esemplare e alla pena senza speranza, al fine pena mai.
Eppure, non occorreva andare a cercare nella notte dei tempi per scoprire qualcosa di meglio del diritto penale. Il motto visionario “nessuno tocchi Caino” della Genesi e l’imperativo messianico “non giudicare!” del Vangelo, si sono inverati in tempi molto più recenti, alla fine del genocidio in Ruanda nel 1994 e in Sudafrica nel 1995 alla fine dell’apartheid, quando per sanare le ferite del passato e ristorare le vittime di immani violenze, crimini di guerra e contro l’umanità, non sono stati edificati tribunali ma “commissioni verità e riconciliazione”. È in questa visione, letteralmente “religiosa”, dei fatti della vita e del mondo, che tende cioè a tenere insieme, legare vite e mondi diversi, che è possibile riconoscere lo spirito, lo stato di grazia che, forse, ci salveranno.

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