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ABBATTERE LA COLONNA INFAME: DALLA SARDEGNA UNA LEZIONE

15 ottobre 2022:

Antonio Coniglio su Il Riformista del 14 ottobre 2022

In quei luoghi cinti dalle querce di sughero, ove la natura mai esanime sa sempre accogliere e perdonare lo straniero che abbracci l’isola, pare fosse sorto una volta un tempio consacrato a Castore e Polluce, i dioscuri nati per andare in soccorso di chiunque avesse bisogno. Proprio in quelle campagne nel cuore della Gallura, nelle quali avevano modellato il proprio nido d’amore, Fabrizio De André e Dori Ghezzi vennero sequestrati e trasferiti sulle alture impervie del Supramonte. Ne nacque una delle liriche più intime e struggenti di sempre: “Hotel Supramonte”. Perché finanche una prigione può divenire luogo ospitale e un’esperienza drammatica tramutarsi in un magnifico gioco di bassi, archi e violini. Il segreto è capire, comprendere, ascoltare. Se capita anche perdonarsi, perdonare, a guisa di ciò che fece il cantautore genovese con quei malcapitati banditi sequestratori.
È l’elogio della giustizia riparativa, che sa ri-cucire, prendersi cura, scacciare l’odio e la vendetta, ritrovare la verità e rimettere a posto le cose. La condizione è che si sappiano “cambiare le lenti”, come insegnava Howard Zehr, e si capisca, una volta per tutte, che non vale proprio la pena accontentarsi di un diritto penale migliore ma occorre radbruchianamente uscire da una visione carcero centrica, reo centrica, andando alla disperata ricerca di “qualcosa di meglio del diritto penale”. Si salvano vite, di uomini e di interi popoli. Cosa sarebbe stata invero la Storia se Nelson Mandela, come il Conte di Montecristo, fosse stato irretito dai tarli di Robben Island, e non avesse ricostruito il nuovo Sudafrica intorno a una giustizia capace di curare le ferite? Se il mondo fosse una eterna Norimberga, una sequenza di tribunali speciali, un vortice senza fine di retribuzione, un anelito mortifero e impenitente alla legge del taglione? Cosa sarebbe stata per esempio la storia del Sudafrica se si fosse scelto di punire gli aguzzini dell’apartheid secondo una logica uguale e contraria o, all’opposto ma con le medesime conseguenze nefaste, si fosse ritenuto di dare un colpo di spugna irenista, rinunciando alla verità senza la quale non si può ritornare pienamente alla vita?
La giustizia riparativa è un percorso eracliteo, mai coatto, impregnato di fatica e di coraggio. Serve rinunciare alla dea bendata, a quella giustizia ieratica e impersonale incapace di ascoltare le vittime e di accompagnare i carnefici in un reale percorso di assunzione di responsabilità. È l’opposto della “Colonna infame” che finge di ascoltare l’altro, offrendo il sangue dell’autore del reato, trasformando infine quest’ultimo in un mero strumento di indagine, riducendo tutto alla colpa e al martirio. È capitato, per uno strano gioco del destino, che in quei luoghi della Sardegna, colorati di verde e marrone, a Tempio Pausania – ove De André seppe scacciare la vendetta barbaricina – si sappia declinare quotidianamente la giustizia riparativa. Tempio Pausania, come riconosciuto dalla ministra Cartabia a giugno, è un modello: la prima città riparativa d’Italia, una delle sei città riparative d’Europa.
Protagonista di questo percorso straordinario, capace di legare comunità e carcere, è una donna penetrante e passionale che insegna psicologia giuridica all’università di Sassari: Patrizia Patrizi. È capitato pure che la professoressa Patrizi, iscritta a Nessuno tocchi Caino, sia stata appena nominata a capo del Comitato Esecutivo del Forum Europeo di Giustizia Riparativa. Proprio la Sardegna – da Tempio Pausania a Sassari, da Nuoro a Oristano e a Cagliari – è stata una delle tappe del “viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino nel 2022. Il logos illuministico di Patrizia Patrizi dalla Sardegna si irradia allora in Europa. È rivolto a costruire un mondo olistico, in grado di disfare l’ingiustizia e di superare le separazioni, ove responsabilità è accountability – non rispetto della norma positiva fine a sé stessa ma consapevolezza delle conseguenze sociali delle proprie azioni. Dove verità forensi, narrative, degli autori dei reati e delle vittime, si incontrano nell’ascolto. Perché il mondo ha un disperato bisogno di dialogo, di “Spes contra spem”, di sperare contro ogni speranza.
Con un approccio diabolico, che divide, che riduce la vita alle categorie del manicheismo, tutto sarebbe hobbesianamente “bellum omnium contra omnes”: una guerra di tutti contro tutti. “Due famiglie disarmate di sangue si schierano a resa e per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”, cantava tristemente De André in “Disamistade”. “Disamistade” in sardo significa faida, inimicizia. Giustizia riparativa è invece quella rivoluzione culturale copernicana che sostituisce ai codici barbaricini, alle tavole della legge, patto di non indifferenza, amore e nonviolenza. È consegnare agli altri la nostra storia, quella luminosa e quella buia. Costruendo un mondo, come fece Sergio D’Elia all’Ergife Hotel quando consegnò Prima Linea al Partito Radicale, che ci restituisca una tecnica della speranza e una educazione sentimentale. Al servizio della vita.

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