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AMNISTIA E INDULTO PER IL BENE DELLA REPUBBLICA. APPELLO AL PARLAMENTO
6 dicembre 2025: Andrea Pugiotto su l'Unità del 6 dicembre 2025 1. All’interno della Costituzione, amnistia e indulto figurano tra gli strumenti di politica criminale nella disponibilità del legislatore. Dunque, entrambi hanno piena cittadinanza costituzionale. Perché, allora, sono del tutto negletti? Perché l’Italia repubblicana, più ancora di quella monarchica, per molto tempo ha continuato a essere il «paese delle amnistie» (Gaetano Salvemini). Dopo l’ampia amnistia di pacificazione del 1946, tra il 1948 e il 1992 sono stati concessi 23 provvedimenti di clemenza, con un ritmo assai superiore a quello del precedente regime. Nasce da qui la diffidenza verso simili leggi, accusate di tutto e di più: la clemenza sarebbe solo un palliativo; indebolirebbe la deterrenza; allarmerebbe l’opinione pubblica; genererebbe nuova criminalità; darebbe un segnale di debolezza dello Stato. Per la doxa dominante, oramai, l’indulto è un insulto e l’amnistia è un’amnesia: ecco perché, nell’era del populismo penale, essere contrari a un atto di clemenza è un facile moltiplicatore di consenso. Tutto ciò si rispecchia nella riforma dell’art. 79 Cost.: approvata nel 1992 in piena Tangentopoli da un Parlamento assediato dal risentimento popolare, quella revisione è stata (anche) un cedimento alle pulsioni giustizialiste dell’epoca. Da allora, per avere una legge di clemenza, serve raggiungere vette dolomitiche: la «maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale». Risultato? Al netto dell’indulto del 2006, è da 33 anni che l’Italia non conosce alcun provvedimento simile. La clemenza, in sintesi, è stata uccisa dalla sua storia: abusata allora, cancellata ora. 2. A favore di una loro rinnovata scoperta, invece, gioca la natura emancipante degli strumenti di clemenza, rispetto alla consueta rappresentazione patibolare del diritto punitivo. Una legge penale esclusivamente retributiva e vendicativa, applicata in modo meccanico e impersonale, rivela un’arcaica origine veterotestamentaria. La logica degli atti di clemenza, invece, è quella evangelica della parabola del figliol prodigo: celebrando l’evento del figlio ritrovato, il padre spezza «l’imperialismo folle di una Legge che non conosce né eccezioni, né grazia, né perdono» (Massimo Recalcati), nella consapevolezza che la norma è fatta per gli uomini, mai viceversa. Questa autentica matrice degli istituti di clemenza è iscritta nel loro etimo. In greco antico, il termine klino esprime l’atto del piegare nel senso dell’adattare alla concretezza delle cose. Giuridicamente, quell’inclinazione (clinamen, in latino) è l’atteggiamento di chi non insiste sulla lettera della legge, adattandola in modo ragionevole alle esigenze del reale. Non è debolezza: è discernimento. Non è perdonismo irenico: è intelligenza istituzionale. 3. Sia chiaro: amnistia e indulto sono forme secolarizzate di clemenza. Non sono sinonimi di “indulgenza plenaria”. La remissione giuridica della pena, infatti, può essere parziale e produrre effetti estintivi selettivi, escludendo dal suo ambito determinati reati. Non sono neppure sinonimi di “perdono”, che è una predisposizione dell’animo di chi lo concede e di chi lo riceve, appunto, per dono. Diversamente, la clemenza giuridica può essere condizionata, obbligando così il soggetto a un dovere di contraccambio. Infine, non sono nemmeno sinonimi di “misericordia”, che è compassione verso la sofferenza dell’altro, non implicante – come invece presuppone la clemenza giuridica – un’altrui condotta negativa. Nessuna confusione tra morale e diritto, dunque. Giuridicamente, essere clementi non significa essere buoni perché ricorrere ad amnistia e indulto «non mette in gioco il cuore e le passioni, bensì la testa e la ragione» (Francesca Rigotti). 4. Oggi, è urgente una clemenza di giustizia volta a evitare «i rischi di “desocializzazione” derivanti da una condizione di sovraffollamento carcerario abnorme» (Vincenzo Maiello) che, in Italia, non è un’emergenza ma una stabile disfunzione. Oggi, per le condizioni materiali in carcere, i detenuti non sono un pericolo, semmai sono in pericolo. Lo attesta la tragica Spoon River dei suicidi dietro le sbarre: 91 nel 2024, la cifra più alta di sempre. Pesi morti, e morti per responsabilità dell’istituzione carceraria perché non impedire un evento che si ha il dovere di evitare equivale a cagionarlo. Manca poco per ritrovarci nelle stesse condizioni che costarono all’Italia, nel 2013, la vergogna di una condanna-pilota a Strasburgo per un sovraffollamento inumano e degradante. In ragione di ciò, già ora giudici di altri Paesi negano l’estradizione in Italia: una condizione umiliante. La clemenza è prerogativa di deputati e senatori: richiede un’assunzione di responsabilità collettiva per il bene della Repubblica. Siete ancora in tempo per esercitare una competenza colpevolmente dismessa. Dove, invece, non c’è più tempo è dietro le sbarre: spetta a voi fermare la cancellazione di vite e diritti nelle carceri italiane.
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