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PER AZZERARE I SUICIDI IN CELLA VA AZZERATO ANCHE IL CARCERE

23 aprile 2022: Valentina Manchisi su Il Riformista del 22 aprile 2022

Aprile 2022. A Barcellona Pozzo di Gotto una giovane donna si è impiccata ad un albero durante l’ora d’aria. È l’ennesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. Una media di un suicidio ogni tre giorni. Una violenza psicologica sottaciuta perché nessun clamore e, soprattutto, nessuno sgomento scuote le coscienze e nessuno sforzo si compie perché ciò non accada. Di queste tragedie si parla solo nei salotti buoni con una semplice e perbenista presa d’atto.
Un dibattito che sembra essere senza soluzione, rinviato, scomodo. Da anni Rita Bernardini, con scioperi della fame, iniziative e proposte di legge, afferma di non voler essere complice. Poche e semplici parole che rivelano una verità evidente e vergognosa: siamo assuefatti alla tragedia delle morti in carcere.
Coloro che giungono ad una decisione tanto estrema sono persone che non reggono l’impatto con una realtà disumana o il protrarsi del doverci vivere o, anche, l’avvicinarsi di un fine pena oltre il quale non c’è nulla perché le porte del pregiudizio, fuori dal carcere, sono tutte chiuse e ricostruirsi una vita è assai arduo. La ragione di ciò è ormai ben nota: il nostro sistema carcerario non fornisce adeguati strumenti per far espiare una pena attuando un concreto recupero della propria vita e del proprio sé, ma esercita una forza indiscriminata e burocratica, quando la burocrazia ha ben poco a che fare con l’animo umano e lo sviluppo di esso.
Come si può pensare che il tintinnare delle manette possa redimere una persona da un errore passato e accoglierla in un sistema di recupero? Quale logica minimamente più evoluta del codice di Hammurabi può far credere che chiudere una persona in quattro mura, magari sovraffollata con altri detenuti, magari in attesa di un processo e dunque presunta innocente, possa servire per ottenere scopi educativi?
Le statistiche su misure alternative e detenzione in carcere mostrano da anni i risultati nei Paesi ove le prime prevalgono nettamente sulla seconda: il tasso di suicidi è più basso, così come il rischio di recidiva una volta scontata la pena.
Eppure, ai “cittadini per bene che non hanno mai sbagliato” non basta. Il sentimento di vendetta supera il concetto di giustizia della pena. La sofferenza altrui, giustificata dalle esigenze cautelari o da una condanna, diventa una panacea per il sentore sociale, che è più semplice e politicamente fruttuoso educare alla forca piuttosto che ispirare alla legalità.
La reazione a un morto suicida in un istituto penitenziario della Repubblica non può concludersi con un “se l’è cercata”, ma dovrebbe smuovere il nostro volere il meglio per ogni essere umano che, ontologicamente fallace, non merita solo parole e promesse perché questo non basta più e non deve bastare più.
Ben vengano amnistie e indulti, referendum contro l’abuso della custodia cautelare, riforme dell’ordinamento penitenziario che consentano uno svuotamento – se pur solo parziale – delle nostre carceri, un diffondersi della cultura della legalità per far comprendere che i detenuti sono cittadini tanto quanto le persone libere, con gli stessi diritti fondamentali, il cui esercizio deve essere garantito e mai ridotto per colpa di prassi, falle organizzative e carenze di sistema; cittadini che, per la loro condizione, si trovano sotto la custodia dello Stato, cioè di tutta quella parte di cittadini liberi che nella tutela dei detenuti aspirano a un miglioramento dell’intera società.
In luogo di una risposta carceraria che, da decenni, non è extrema ratio ma misura applicata di default, bisogna ambire a un carcere ridotto al minimo, per non dire azzerato, la cui struttura organizzativa sia in grado di dare vita a leggi vigenti da quasi cinquant’anni e di fatto mai applicate, in cui i detenuti possano trovare nei loro educatori, nei loro interlocutori, nei loro magistrati di riferimento quella prossimità che è l’unico strumento per svolgere un percorso che sia davvero individualizzato e che possa condurli a una piena, vera e consapevole riconciliazione.
Mentre Oscar Wilde subiva una lunga carcerazione e rifletteva su di essa, scriveva che tutto ciò di cui ci si rende conto è bene. Un secolo dopo, Marco Pannella gli faceva eco sostenendo che l’amore è costanza dell’attenzione e intimamente condannando il non fare, il non occuparsi, l’ignorare col politicamente corretto. Solo trasmettendo il bene, a chi non lo conosce o lo ha perso, è possibile realizzare ciò che la Costituzione pone alla base del più semplice dei diritti umani: la solidarietà.

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