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TARFUSSER, IL PM CHE SI BATTE PER PROVARE L’INNOCENZA

22 aprile 2023: Fausto Malucchi su Il Riformista del 21 aprile 2023

Accade spesso che alla fine di una proiezione, anche di una proiezione emozionante e complessa come quella che aveva ripercorso la vicenda giudiziaria di un uomo, condannato innocente e, per ventun anni, prigioniero senza colpa delle galere italiane, si chieda se qualcuno vuole intervenire. Spesso nessuno si alza e la serata finisce lì.
Ma quella sera, un uomo percorse il breve spazio che separava la platea dal palco, salì le scalette di servizio, si fermò davanti a un altro uomo, vittima dell’errore di Dike o forse di qualche giudice sbagliato e, con sguardo diretto e voce nordica, pronunciò parole giuste, a corredo di una sentenza che nella forma ma solo nella forma aveva riportato l’orologio della vita di Angelo Massaro indietro di ventuno anni: “in nome del popolo italiano e delle istituzioni, le chiedo umilmente scusa”. Sembrarono parole strane ma Angelo Massaro, commosso, le capì.
E mentre la gente si guardava ancora, interrogandosi con gli occhi sull’identità di quello sconosciuto, Cuno Tarfusser, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano, già Vice Presidente per nove anni della Corte Internazionale dell’Aja, Procuratore Capo di Bolzano, era già lontano, sul primo taxi che nella notte lo portava a casa. Lui non c’entrava nulla con quel caso, non lo aveva mai trattato, ma era un giudice e come giudice si scusò.
Ci vuole coraggio, sensibilità, umanità, per scendere dallo scranno e mettersi all’altezza degli uomini; per guardarli negli occhi, per scoprire i loro errori o, talvolta, anche i propri. Certo il prestigio di Tarfusser non nasceva quella sera, con quel telegrafico e bellissimo intervento che aveva colpito la sensibilità dei presenti ma non aveva avuto conseguenze e meritato risalto nell’opinione pubblica. Era stato lui a condurre importantissime indagini a Bolzano e poi all’Aja, aveva firmato i mandati di cattura a carico del Presidente del Sudan Al Bashir per genocidio, nei confronti di Gheddafi per crimini contro l’umanità e per la stessa ragione aveva rinviato a giudizio il Presidente del Kenya Uhuru Kenyatta e il Vicepresidente del Congo Jean Pierre Bemba. Era per queste “pratiche” e non per essere salito sul palco a chiedere scusa per la magistratura che Cuno Tarfusser aveva assunto un ruolo primario tra i giudici.
Devo dirvi la verità, di tutto ciò non mi importava molto. Bravo, veramente bravo Tarfusser, però il tema non mi coinvolgeva emotivamente più di tanto.
Poco dopo però mi imbattevo in un articolato, appassionato e complesso ricorso per Cassazione, avverso una sentenza di condanna per omicidio, redatto con stile degno del migliore dei difensori, che però non era un avvocato bensì il titolare dell’accusa, il pubblico ministero. Cuno Tarfusser, si proprio lui, si firmava. E nella premessa spiegava ai Giudici della Suprema Corte che era l’art. 73 dell’Ordinamento Giudiziario che gli imponeva come Pubblico Ministero il controllo sull’osservanza delle leggi, anche di quelle che avevano portato alla condanna, ed era poi l’art. 359 del codice di procedura penale che lo obbligava “a ricercare ed acquisire le prove anche a favore dell’imputato”. Niente di strano quindi in quel ricorso ma soltanto rispetto e applicazione della legge, a cui sono tenuti tutti e in particolare il Pubblico Ministero. E la Corte di Cassazione, accogliendo le censure del dott. Cuno J. Tarfusser, annullava con rinvio la sentenza di condanna dell’i
 mputato, pronunciata dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano.
Apprendevo allora che Tarfusser aveva presentato anche altri ricorsi, a favore di altri imputati ingiustamente condannati e aveva ottenuto l’annullamento anche di altre sentenze. Il caso Alfano non era stato per lui un fatto eccezionale ma il consueto adempimento del dovere che lo obbligava al doppio controllo, sia quando l’imputato veniva assolto ma anche quando risultava condannato.
Non so se la Corte d’Appello di Brescia accoglierà o meno la richiesta di revisione da lui presentata in queste ore avverso la sentenza che condannò Olindo Romano e Rosa Bazzi alla pena dell’ergastolo per la strage di Erba. Già di per sé è comunque un fatto clamoroso che comunque vada a finire aumenterà a dismisura la sua notorietà. Ma non sarà l’esito di questo importantissimo procedimento ad accrescere o intaccare il valore di un uomo, preparato e libero, che per gran parte della sua vita ha inciso sulla vita di altri uomini e che ha ricordato o insegnato, a noi tutti, che nel nostro ordinamento il pubblico ministero, così come è il titolare dell’accusa, rimane pur sempre il primo codifensore dell’imputato.
Non per lo stile incerto o per l’inesistente fama dello sconosciuto autore, bensì per la storia che contiene, per le persone e il gesto che vi viene raccontato, consiglierei di ritagliare, rileggere e conservare questo articolo: all’interno di un libro se siete studenti o uomini curiosi, tra le pagine del codice se siete Magistrati.

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