HO VISTO L’OSCENITÀ DEL CARCERE, COME PUÒ RESTITUIRE PERSONE MIGLIORI?
4 maggio 2024: Francesco Lo Piccolo* su L’Unità del 4 maggio 2024 Il 23 aprile ho partecipato alle visite di Nessuno tocchi Caino e delle Camere Penali alle Case circondariali di Chieti e Pescara. Conosco bene i due istituti perché è dal 2008 che vi entro come volontario di “Voci di dentro”. Ma questa volta è stato diverso perché non ho incontrato le persone detenute nelle stanze allestite per i laboratori di scrittura o teatro. Questa volta li ho incontrati nel loro habitat, nelle celle e nelle sezioni. Ed è stato un pugno allo stomaco. Ho visto il carcere in tutta la sua oscenità, in tutto il suo orrore. Lo dicono i numeri: 130 detenuti a fronte di 70 posti a Chieti e 400 detenuti a fronte di 276 posti a Pescara; ma soprattutto lo svelano le grate alle finestre ai piani terra per evitare che entrino i topi, le muffe al soffitto nei gabinetti e in molte camere, i secchi sotto i lavandini per raccogliere l’acqua che fuoriesce dalle tubature, la mancanza di luce e di areazione. Per la prima volta ho visto il contenitore, il luogo dove sono costretti a passare il loro tempo centinaia di giovani e vecchi, poveri e malati, in stampelle, ciabatte e accappatoio. Molti li conoscevo già, ma era da molto tempo che non venivano più nei laboratori di “Voci di dentro”: li ho ritrovati ingrassati, gonfi, stanchi, sofferenti. Nel reparto psichiatrico di Pescara ho trovato un uomo che era rinchiuso da una ventina d’anni. Avrà avuto 40-45 anni. Ci ha raccontato che prende “la terapia” al mattino presto, a mezzogiorno, nel primo pomeriggio e poi la sera, prima della chiusura delle celle. Ci ha detto che ha girato tante carceri, che a Pescara si trova bene, che gli agenti sono gentili: “io non vedo le divise blu, io dentro quelle divise vedo persone”. Lui che è definito “psichiatrico”, imbottito di non so quanti psicofarmaci, vede le persone non il ruolo, il contrario di tanti fuori che vedono solo il reato. Psichiatrico da quando aveva vent’anni? Davvero sicuri che non sia diventato psichiatrico proprio in questo luogo che non ha senso e non ha vita? E allora mentre giravo per quelle celle e quei grandi e lunghi corridoi mi sono sentito sopraffare da una specie di nausea. Che cosa è questo luogo? Che cosa fa questa istituzione? Cosa è questo rimbombo di voci, porte che sbattono, urla? Ho visto ragazzi che credevo fuori e liberi; ho visto un giovane con la barba e con l’occhio spento che non ho saputo riconoscere da quanto era cambiato: “Sono Marco, ti ricordi, cinque anni fa ero in misura alternativa”. Che cosa era successo? Che cosa aveva fatto? Soprattutto, che cosa non aveva fatto questa società per aiutarlo ed evitare che tornasse dentro? Dove erano i servizi sociali? Ho visto decine di persone che dormivano. Alle due del pomeriggio, in stanze con tende alle finestre per non far entrare la luce, una lurida coperta sopra la testa. E ho visto cameroni con 6 letti e 4 sgabelli e camere con 4 letti e due sgabelli: “mangiamo a turno”. Ho visto le famose bombolette per cucinare e che servono anche a sballarsi o farla finita e i tegami in teflon senza più teflon, e sulle mensole di cartone batterie per le radioline e che alle volte finiscono in quelle pance scolpite o gonfie per protesta, perché è saltato un colloquio, per urlare sofferenza e chiedere ascolto. Ho visto le stanze per l’isolamento: celle nude, alle pareti le tracce di tante povere vite. Ecco davanti ai miei occhi il contenitore con mura sporche, intonaco scrostato, finestre dove non passa l’aria, arredi da terzo mondo, pochi e rotti, ed ecco il suo contenuto: uomini sofferenti e persi, scartati. Nel vuoto: poca scuola, medici insufficienti, nessun lavoro. A Pescara la calzoleria gestita da una ditta esterna e che impiegava per 4-5 ore al giorno una trentina di persone è chiusa da tempo per manutenzione. Quale trucco ci fa dire che questi uomini e donne sono rinchiusi per tornare fuori migliori? Come possiamo credere possibile un cambiamento se sono lasciati per mesi e anni a parlare tra loro, a confrontarsi con altri identici a sé? Gimmi mi ha detto che è dentro da dieci anni, che la sua famiglia è a Roma. Che gli restano da scontare 5 mesi e che non lo mandano a casa. E poi mi ha fatto conoscere un ragazzo col barbone che poco tempo fa aveva tentato di impiccarsi alla sbarra della doccia e che lo hanno tirato giù appena in tempo: gli ha detto di mostrami i tagli alla pancia e alle braccia… Luogo osceno e orribile, ecco quello che ho visto e quello che mi ha trasmesso questa visita. E ho immaginato la vita degli agenti in questo posto che non ha nessuna dignità e dove ragazzi che spesso hanno l’età delle persone detenute sono costretti a diventare coloro che detengono, “guardie” ma anche psicologi ed educatori e che alla fine del turno, il doppio o triplo turno, anche 18 ore di seguito, si tolgono la divisa e si infilano la tuta e si mettono a correre… chilometri e chilometri per tornare a respirare. Lontano da quel posto. * Giornalista, direttore di Voci di dentro
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