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CARO DOTT. CAPECE, IN CARCERE NON CI SONO BUONI CONTRO CATTIVI

11 settembre 2022: Maria Brucale su Il Riformista del 9 settembre 2022

Caro dottor Capece, il carcere è un mondo difficile, di straordinaria complessità, quella che connota le innumerevoli sfaccettature dell’essere umano. Non è un luogo all’interno del quale si contrappongono buoni e cattivi, diritti tutelabili e diritti da calpestare. È, soprattutto, un luogo che appartiene alle istituzioni e le rappresenta, un pezzo dell’ingranaggio chiamato Stato, all’interno del quale le esigenze di sicurezza dei cittadini, tutti, anche quelli reclusi, devono essere curate affinché la società sia più ordinata, sicura. È, ancora, un luogo dove le persone che hanno commesso reati espiano una pena che deve essere utile a reintrodurle produttivamente nel consesso civile. È, infine, un luogo dove talvolta, non così raramente, sono private della libertà in attesa di giudizio persone che verranno assolte da tutte le accuse, che patiranno un’ingiusta interruzione di vita e subiranno le tragiche conseguenze del disdoro e della mutilazione di relazioni connesse alla reclusione.
È, quindi, necessario che ci si doti di risorse umane e materiali dentro e fuori le carceri che consentano a ogni persona che voglia riabilitarsi di poterlo fare senza subire la violenza di una punizione fine a sé stessa che sottrae dignità, priva di autonomia di pensiero e azione, lede il decoro del vivere, annienta gli affetti, nega la speranza. Non possiamo entrare nel cuore e nella mente di chi ha sentito che la propria esistenza non avesse più nulla da offrire, di chi ha pensato che la morte fosse la sola occasione di sollievo per sé e per i propri cari. Sappiamo però che il disinteresse della collettività per la persona che finisce nel circuito stigmatizzante del carcere determina una percezione di abbandono che può risultare insuperabile. Sappiamo che il carcere impone un marchio di infamia indelebile che scalfisce la credibilità personale e pregiudica il ritorno al mondo del lavoro. Che in carcere manca tutto quello che dovrebbe esserci, che la comunità penitenziaria tutta vive in disperante disagio.
Tutti – agenti, educatori, personale sanitario e amministrativo – patiscono il disinteresse dello Stato e una carenza endemica di risorse. Sono assurde, insensate, nocive le contrapposizioni. Ci dice, dott. Capece, che gli agenti di polizia penitenziaria “nel solo primo semestre 2022 hanno sventato 814 tentativi di suicidio da parte di altrettanti detenuti”. Certo, a loro va tutta la nostra gratitudine perché esercitano la professione in condizioni lavorative estremamente penalizzanti, ma il dato su cui tutti, insieme, dobbiamo soffermarci è che 814 persone fossero arrivate a decidere che per loro ogni speranza fosse inutile, morta. La sicurezza sociale passa per il benessere delle persone che stanno in carcere, tutte, quelle che espiano la loro pena, quelle che lo Stato pone quali custodi e garanti che quella pena sia orientata ai suoi scopi costituzionali. Il benessere del carcere inteso come comunità e come parte integrante dello Stato è possibile solo se ogni suo anello è coeso saldamente a tutti gli altri.
L’azione politica nonviolenta di Rita Bernardini, Presidente di Nessuno tocchi Caino, di quanti di noi la sostengono con il digiuno a staffetta è tesa proprio al recupero della tenuta sociale, è rivolta alle Istituzioni perché attraverso segnali di ristoro dimostrino in concreto alla comunità penitenziaria tutta l’interesse dello Stato e il proposito di includere finalmente quella comunità negletta tra gli obiettivi politici. È chiaro che senza riforme strutturali e senza aiuti adeguati il problema non può essere risolto. Se amnistia e indulto non sono obiettivi perseguibili nell’immediato, va detto però che le situazioni di emergenza a volte richiedono provvedimenti di urgenza tesi a ridimensionare la portata di fenomeni drammatici, ingovernabili e insopportabili in uno Stato di Diritto. Bisognerebbe anche guardare alla realtà e vedere, ad esempio, che i tribunali non sono in grado di gestire il carico processuale che hanno e rinviano a tempi lontanissimi la trattazione dei processi relativi ai reati più gravi comportando di fatto la malagestio della giustizia, la disattenzione alle attese di chi l’ha invocata, l’impossibilità di pervenire a pene giuste perché inflitte quando hanno ancora una utilità sociale, quando ancora la persona che ha commesso il reato può percepire il senso dell’impeto punitivo dello Stato.
Certezza della pena è concetto completamente travisato. Il senso di questa espressione è una pena mite, coerente alla gravità del reato, dinamica, non fissa, che assecondi il fine di un rientro nella vita libera. Nessuno tocchi Caino vuole oggi con il digiuno di Rita e da sempre con la sua azione politica unicamente che sia rispettata la legge nelle carceri e che ogni diritto umano trovi nello Stato il giusto ristoro e la giusta attenzione.

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