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COSÌ PANNELLA ACCOLSE FRANCESCA MAMBRO E VALERIO FIORAVANTI

4 giugno 2023:

Sergio D’Elia su L’Unità del 3 giugno 2023

Caro Piero, sono sempre più convinto che abbiamo fatto bene a seguirti anche sull’Unità. Perché su Fioravanti hai scritto, che meglio non si poteva, cosa vuol dire il nostro “Nessuno tocchi Caino”. Il tuo discorso su Valerio, “il Caino, l’uomo, il sapiente” marchiato dai “militanti del bene” col “fine pena mai”, è un saggio del pensiero – tu diresti – socialista, cristiano, liberale e – aggiungerei io – nonviolento del Diritto e della Giustizia.
Il tuo discorso su Valerio è un inchino grandioso al principio cristiano “non giudicare” da cui solo può originare il fine a cui dobbiamo tendere del disarmo unilaterale della violenza propria del diritto e della giustizia penali. La giustizia che brandisce una spada, in nome di un popolo in animo di lanciare pietre, nella prospettiva penitenziaria della privazione non solo della libertà ma di tutto: della salute, della dignità, della vita…
Ecco, tutto ciò, in un momento, sarebbe dissuaso dalla semplice domanda: chi giudica chi? Questa straordinaria istanza della sospensione del giudizio, mai pensata, poco sentita e per nulla praticata dai primi agli ultimi sedicenti seguaci di Cristo, vive oggi – grazie a te – su un giornale fondato, guarda caso, proprio da un carcerato. Non poteva che essere così. E ai patiti della pena, ai cultori delle manette, delle sbarre e dei chiavistelli suggerirei un breve momento di “rieducazione”, la pratica di un giorno in quella straordinaria opera di misericordia corporale che è “visitare i carcerati”.
Opera che continuiamo a incarnare nel nostro “viaggio della speranza” che da gennaio ha fatto tappa già in sessanta istituti di pena. A proposito, caro Piero, lancio qui una proposta. A settembre, nell’anniversario della morte di Mariateresa Di Lascia, la fondatrice di Nessuno tocchi Caino, facciamo insieme una visita a Turi ed entriamo nella cella dove è stato carcerato Antonio Gramsci, il fondatore de l’Unità.
Nell’andare a Turi, magari, facciamo tappa a Nola, dove è nato Giordano Bruno, per onorare l’eretico e l’eresia di un pensiero letteralmente “religioso”, cioè volto all’armonia, al dialogo, all’unione di cose e storie diverse. Perché così funziona l’universo, su questo si regge il mondo: sulla legge e l’ordine, sull’amore e la nonviolenza. Questo vale anche per noi, credo, nel nostro piccolo mondo associativo, politico, editoriale.
Scusami, se nel parlare di te e del tuo amico Valerio parlerò un po’ anche di me. Forse, sarà più accettabile, essendo la mia storia di matrice “politicamente corretta” in quanto opposta a quella di Valerio. Anche se in realtà è la stessa storia, perché il destino tragico della violenza che uccide con il prossimo anche se stessi e la maledizione senza scampo dei mezzi che prefigurano e pregiudicano i fini, sono gli stessi. Allora, mi ricordo che quando, mezzo secolo fa, la mia prima vita fu bruscamente interrotta dall’arresto ed è iniziato il mio ininterrotto – per una dozzina d’anni – peregrinare nelle patrie galere, all’ingresso di una di esse molto speciale c’era una scritta: “qui entra l’uomo, il reato resta fuori”.
Anni dopo, un grande capo del Dap, Nicolò Amato, concepì una visione diversa del carcere che definì il “carcere della speranza”. Grazie a lui uscii dal “carcere duro” e l’anno dopo entrai nel Partito Radicale. Con un permesso premio andai al Congresso per consegnare al partito della nonviolenza la mia prima vita violenta. Marco Pannella l’accolse, tutta, la mia vita, non la fece a pezzi come un quarto di bue sul bancone di macelleria: da una parte quella buona, nonviolenta, dall’altra quella cattiva, violenta. “Violenti e nonviolenti sono fratelli”, diceva Marco. Nemici sono i rassegnati, gli indifferenti. La differenza, aggiungeva, è che i violenti sono rivoluzionari per odio, i nonviolenti lo sono per amore.
È qui, nel nome, nella visione e nel metodo di Pannella, che la mia vita si intreccia con quella di Valerio (e di Francesca). Per contrappasso Marco affidò a me la missione contro la pena di morte nel mondo, l’omicidio politico, l’errore capitale dello Stato che nel nome di Abele diventa esso stesso Caino. Per amore della semplice verità che l’uomo della pena può essere diverso da quello del delitto, Marco accolse anche Valerio Fioravanti di cui pensava e ripeteva spesso: “Se avessi dei figli non esiterei un attimo ad affidargliene la cura e l’educazione”.
Così, quando Francesca e Valerio sono usciti da Rebibbia, ad attenderli c’erano i senza potere, gli inermi, i radicali nonviolenti, pannelliani di Nessuno tocchi Caino. Convinti della loro diversità dai tempi del delitto e anche della loro estraneità al più orribile dei delitti. Credenti nella supremazia dei valori costituzionali e universali della persona sui sentimenti popolari di vendetta. Osservanti il diritto-dovere di accoglienza degli ultimi tra gli ultimi: i carcerati.
È qui che la storia di Nessuno tocchi Caino si intreccia con quella de l’Unità. A Nessuno tocchi Caino può iscriversi chiunque, su l’Unità può scrivere chiunque, anche Valerio Fioravanti. Sono luoghi dove entra l’uomo e il reato resta fuori, dove è possibile essere sé stessi, cioè identificarsi col diverso, difendere l’opposto.

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