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Il carcere di Cremona
Il carcere di Cremona
IL CARCERE DI CREMONA È ANCORA PENSATO PER MAFIOSI E TERRORISTI

7 giugno 2025:

Cesare Burdese*

Lo scorso 23 maggio, davanti al Duomo di Santa Maria Assunta a Cremona, mettevo ordine nella mia mente, reduce dalla visita di Nessuno tocchi Caino e della Camera Penale alla Casa circondariale. Quell’architettura mi parlava mirabilmente, attraverso le sue stratificazioni stilistiche, dell’evoluzione storica, culturale e artistica di una società nella città, ciascuna testimone di valori e di principi del suo momento.
Anche il carcere da poco visitato mi è parso come un libro, le cui pagine di cemento raccontano della sua storia, architettonicamente ferma però al periodo dell’emergenza terroristica e mafiosa in Italia, nel quale fu costruito. Esso, in forza di quell’emergenza, è stato concepito per garantire la massima sicurezza e l’isolamento al suo interno e verso l’esterno, e così è stato per tutti i restanti carceri attualmente in uso in Italia.
Il suo posizionamento, in prossimità dello snodo autostradale, all’estrema periferia della città, lo rende un fatto estraneo alla collettività, poco connesso con la realtà socio economica del territorio. Al suo interno esiste una falegnameria condotta dai detenuti ma che non ha commesse esterne. Dalla sua alta cinta muraria svettano spettrali gli edifici delle celle, da dove, ai piani più in alto, si intravede il Torrazzo, unico legame visivo con il nucleo urbano.
La struttura è suddivisa in un padiglione vecchio, costruito negli anni ‘80 e aperto nel 1992 e una struttura nuova aperta nel 2013. Nonostante minime modifiche strutturali per sopravvenute nuove esigenze normative e l’ampliamento del 2013, nulla in quei muri traspare dei progressi che nel frattempo erano stati fatti in ambito architettonico penitenziario in altri Paesi, con lo scopo di umanizzare e dare dignità al carcere. Tramontato il periodo emergenziale, il requisito della sicurezza ha continuato a prevalere a discapito della qualità ambientale e delle finalità risocializzative.
Il carcere di Cremona, come tutti gli altri, per come è costruito è un luogo di mortificazione dei bisogni fisiologici, psicologici e relazionali dei suoi utilizzatori e di ozio forzato, a discapito di una esecuzione penale secondo Costituzione e di una condizione lavorativa decorosa per gli operatori penitenziari tutti. A questo si aggiungono il degrado generalizzato degli ambienti detentivi, frutto di scarsa manutenzione nel tempo e il sovraffollamento che, tra il resto, limita e penalizza le attività trattamentali, insieme al sotto organico degli agenti, categoria da anni in “crisi di vocazione” e degli educatori.
Le celle complessivamente fatiscenti, sono dotate di servizio igienico con doccia e acqua calda solo nella parte più recente; in molte l’impianto idrico è mal funzionante e gli armadietti per riporre gli indumenti e gli effetti personali scarseggiano e sono malandati. I panni lavati vengono stesi ad asciugare in cella. Il locale di ciascuna sezione detentiva, pomposamente denominato “saletta per la socialità”, dove presente, altro non è che una stanza disadorna, male illuminata e areata e priva di un arredo funzionale.
I cortili cellulari, utilizzati per un massimo di quattro ore al giorno dai detenuti, sono luoghi angusti e inospitali, dove qualsiasi vista e visuale libera ed elemento vegetale sono assenti. Molte delle stanze, dove i detenuti svolgono i colloqui con i loro famigliari in totale mancanza di privacy, non hanno finestre alle pareti ma solo un lucernario a soffitto, protetto da pesanti inferriate. Complessivamente la quotidianità detentiva e lavorativa degli utenti di quella struttura si svolge al chiuso, in ambienti labirintici e illuminati artificialmente, senza poter vedere agevolmente fuori, con grave danno per tutti della capacità visiva.
Nell’arco di vita del complesso, le minime migliorie introdotte non hanno sostanzialmente scalfito una condizione materiale anacronistica e contraddittoria, ancorché disumana e degradante.
A Cremona, e non solo lì, i muri del carcere continuano a parlare di un carcere afflittivo, ignari di una pena riformata che celebra fra breve il suo cinquantesimo anniversario. Peraltro all’orizzonte non si intravede alcuna concreta possibilità di cambiamento, né di miglioramento. Al contrario, gli ultimi provvedimenti di natura architettonica adottati per fronteggiare il sovraffollamento configurano scenari ancora più critici, fondati sull’idea di una esecuzione penale tutta risolta all’interno di recinti carcerari esistenti. Le edificazioni programmate dal nuovo piano carceri consistenti in moduli prefabbricati con annessi cortiletti in cemento privi di verde e con arredi avvitati a pavimento, in carceri già al collasso, non lasciano ben sperare.
Il 25 luglio prossimo venturo, saranno trascorsi cinquant’anni dal varo della Riforma dell’Ordinamento penitenziario, rimasta al palo, tanto nella sua esecuzione quanto nell’aggiornamento delle strutture detentive.
* Architetto

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