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CHIEDERE UN MODELLO DI PENA PIÙ UMANO NON VUOL DIRE DIMENTICARE LE VITTIME

8 novembre 2025:

Mario Sacchi* su l’Unità dell’8 novembre 2025


Il 13 novembre 2009 ho iniziato a pensare che cosa sia la giustizia e cosa significhi chiedere giustizia. Il 30 ottobre 2025, sedici anni dopo, una visita al carcere di Monza me l’ha chiarito. Sono entrato nella Casa Circondariale insieme all’Associazione Nessuno tocchi Caino, ad altri amministratori locali e imprenditori del territorio, al garante dei detenuti di Monza e Brianza Roberto Rampi. Un’esperienza che scuote, genera domande, intensifica l’ascolto, stimola l’impegno a fare di più per le nostre comunità. Nella delegazione del mio Comune Usmate Velate c’erano anche la Presidente del Consiglio Comunale Stefania Brigatti e la Consigliera Francesca Tornaghi, con le quali abbiamo provato a dare voce a quello che accade in un non-luogo della nostra società, dove a perdere la voce sono le persone detenute ma anche chi qui lavora con professionalità, umanità e impegno.
Nella nostra società e nel panorama politico c’è chi si indigna davanti alla proposta di abolire il carcere. Ma è ora di abolire quello che Filippo Turati, più di un secolo fa, già definiva “il cimitero dei vivi”. C’è chi mi ha chiesto, a fronte della mia posizione, che posto abbiano le vittime nel mio cuore. Rispondo che la notte del 13 novembre 2009 mia zia Cristina fu vittima di un incidente stradale. Avevo 14 anni e frequentavo il primo anno di liceo. Da quel momento le vite della mia famiglia sono cambiate.
Credo di avere una certa empatia verso la sofferenza delle vittime e delle persone a loro care, così come credo di sapere quanto sia importante il riconoscimento della vittima in quanto tale.
La sofferenza la vivo ogni giorno nel cuore.
Da quel 13 novembre di sedici anni fa però mi interrogo su cosa sia la giustizia, su cosa significa chiedere giustizia per un torto e se il modello che la nostra società utilizza per farsi giustizia sia effettivamente giusto.
Molti sostengono che il carcere non sarebbe “uno strumento di vendetta” e affermano che la pena avrebbe “una funzione alta e nobile” perché volta a punire l’atto ingiusto con una risposta proporzionata, a proteggere la sicurezza della collettività e a rieducare. Ritengo che quanto visto al carcere di Monza smentisca immediatamente questa idea.
Al momento la situazione delle carceri italiane è più vicina a quanto parte dell’opinione pubblica e di una certa destra pensa debbano diventare gli istituti penitenziari, ovvero un luogo dove sbattere in cella il colpevole e buttare via la chiave.
Il carcere è oggi solo l’ultimo colpo della spada brandita minacciosa in una mano come appare nell’iconografia della giustizia. Un’arma che incute timore e separa il lecito dall’illecito, il legittimo dall’illegittimo, il bene dal male. La separazione del reo diventa segregazione, esclusione fisica, morale e sociale. Non c’è nulla di alto e nobile in questo. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” recita l’articolo 27 della Costituzione. Al contrario, ci troviamo di fronte una situazione di sovraffollamento inumano delle carceri – a Monza la capienza massima del carcere sarebbe di 411 detenuti, il giorno della visita erano 722. La cifra delle persone detenute che tornano in carcere perché recidivi è altissima: nessuna sicurezza per la società e nessuna rieducazione. Basterebbe leggere la realtà dei numeri per capire che il modello è più ingiusto che giusto.
Il nostro modello culturale di giustizia è retributivo, repressivo e punitivo. È una giustizia che calcola, che misura nei termini di ciò che spetta e ciò che deve essere negato. La responsabilità è verso il fatto e la norma, mentre si cancella la responsabilità verso l’altro offeso, verso la vittima, che a sua volta è semplicemente dimenticata. Penso che questo modello non risponda al sentimento di giustizia che proviamo davanti all’ingiustizia. Esistono alternative, purtroppo poco utilizzate nel nostro Paese. Ne è un esempio la giustizia riparativa, contenuta peraltro in una Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 1999 e i Principi Base sull’Uso di Programmi di Giustizia Riparativa in questioni criminali (2000-2002) delle Nazioni Unite.
Voler cambiare l’attuale sistema di reiterazione della sofferenza delle carceri non significa dimenticarsi delle vittime, come invece fa l’attuale modello, ma è al contrario la spinta a tenere viva la domanda di giustizia cercando però una risposta umana, così come ci ricorda la nostra Costituzione.
* Vicesindaco del Comune di Usmate Velate

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