DEMOCRAZIA VS. GUANTANAMO: UNO A ZERO
28 maggio 2023: Valerio Fioravanti su L’Unità del 28 maggio 2023
Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, gli Usa, oltre a invadere l’Afghanistan, hanno dato per qualche mese carta bianca alla Cia, e poi, senza fretta, hanno ceduto all’esigenza di dare comunque un inquadramento giuridico alla lotta contro Al-Qaida, creando il campo di Guantanamo. Oggi uno degli ideatori di questa innovazione, Ted Olson, Avvocato Generale dello Stato sotto l’amministrazione Bush, dichiara: “Guantanamo non funziona”. Nel frattempo Guantanamo è costata al contribuente circa 7 miliardi di dollari, più di 1 milione di dollari al mese per ogni singolo “terrorista” internato. Dopo 20 anni, nessun processo è stato celebrato, e salvo 8 uomini trasferiti sulla terraferma e processati in una corte federale con imputazioni minori, tutti gli altri sono rimasti in “carcerazione preventiva” per tutto questo tempo. Oggi, dopo che il 20 aprile è stato “scarcerato” un algerino, a Guantanamo sono rimasti 30 uomini, 16 dei quali dovrebbero essere rilasciati, ma i paesi d’origine non vogliono riprenderli. Anche perché sono gli stessi paesi che li hanno consegnati, e forse preferiscono non tornare sull’argomento. Tutti sanno che Guantanamo è una base della marina statunitense che si trova, stranamente, a Cuba. Nel 1903 gli USA aiutarono l’isola, allora colonia spagnola, a conquistare l’indipendenza, e ricevettero in cambio un piccolo porto naturale, dove nel 1494 era già sbarcato anche Cristoforo Colombo, in “concessione perpetua”, con un affitto di 20 dollari d’oro l’anno. Dal gennaio 2002, un’approssimativa struttura carceraria, volutamente scomoda, ha ospitato 780 uomini, nessuna donna. Uomini rapiti in varie parti del mondo, ritenuti terroristi o fiancheggiatori. La scelta militare ed extraterritoriale era stata fatta in parte per motivi di sicurezza (evitare attacchi del terrorismo islamico a carceri o tribunali sul suolo degli Stati Uniti), ma anche per mantenere una certa riservatezza sul processo, visto che nella vicenda ci sono molti aspetti delicati. Gli arresti sono stati tutti illegali, a queste illegalità hanno collaborato molte nazioni, sono stati illegali gli interrogatori “under duress” (sotto tortura), e sono state illegali tutte le estradizioni, mai formalizzate da nessun tribunale. Una corte militare avrebbe garantito poca stampa, niente pubblico, avvocati militari, niente giurie popolari… ma ai “terroristi” gli USA non volevano riconoscere lo status “militare”, altrimenti sarebbero protetti dalla famosa “Convenzione di Ginevra” sui prigionieri di guerra. Quindi è stato creato l’ibrido: un tribunale militare che processa civili. Giudice, giuria e accusa sono militari, ma gli avvocati della difesa sono “civili”. Come dicevamo, dopo più di 20 anni, nessuno dei “terroristi” di Guantanamo è stato processato. I 5 con le imputazioni più gravi, concorso diretto negli attentati dell’11 Settembre, sono stati rinviati a giudizio 10 anni fa, ma da allora il processo è fermo alle fasi pre-dibattimentali. Perché un manipolo di bravissimi avvocati d’ufficio, pagati con denaro federale, contesta ogni irregolarità. Come ha scritto il New York Times: “Grazie ad avvocati difensori molto combattivi il processo è praticamente in stallo, portando alle dimissioni dei vari giudici militari che di volta in volta sono stati nominati per presiederlo”. Sia detto per inciso, due di questi avvocati, Thomas H. Speedy Rice e Judy Clare Clarke, sono da sempre iscritti a Nessuno tocchi Caino, anzi, come si dice in inglese, Hands off Cain. La necessità di schermare i politici, e la Cia da una testimonianza in aula sta invalidando le pochissime prove che esisterebbero contro i “terroristi”, ossia le confessioni, spesso solo parziali, ottenute sotto tortura. La stessa amministrazione Biden, sbloccando un lungo impasse, ha fatto trapelare di essere contraria all’utilizzo di queste confessioni. Si creerebbe infatti un “precedente” giuridico che potrebbe in qualsiasi momento rivoltarsi contro lo stesso governo statunitense se mai un suo diplomatico, funzionario o militare venisse rapito all’estero e sottoposto a tortura. L’Amministrazione sta “trattando” su quei pochi prigionieri che proprio non vuole liberare: non saranno condannati a morte, e sconteranno la pena in un “normale” supercarcere federale, non in isolamento. La trattativa non si chiude perché gli imputati vorrebbero che a carico del governo venisse messa la terapia psicologica per i postumi delle torture subite, e il governo cerca un modo traverso per non dichiararsene responsabile. A parte questo, il carcere super-duro di Guantanamo non ha funzionato. La democrazia, seppure un po’ a fatica, quella sì.
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