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IL DIRITTO PENALE FONDATO ANCORA SULLA LEGGE DEL TAGLIONE

8 novembre 2025:

Diego Mazzola su l’Unità dell’8 novembre 2025


Narra Pausania il Periegeta che, quando nella città di Argo regnava Crotopo, sua figlia Psamate ebbe un figlio da Apollo di nome Lino. Per la vergogna e il timore della reazione del padre, Psamate abbandonò il neonato all’aperto tanto che venne dilaniato dai cani del gregge reale. Non soddisfatto di questo, Crotopo uccise anche la figlia, sfidando l’ira di Apollo che l’amava molto. Infuriato, il dio delle arti e degli amori sfortunati mandò ad Argo l’esatto contrario dell’amore e della pietà, un terribile mostro marino chiamato per l’appunto “Pena”, uso a strappare i figli alle madri e poi ucciderli. Al mito e alle leggende dobbiamo sempre molta della nostra conoscenza.
Da allora la parola “pena” assunse il significato di “punizione”. Si punisce qualcuno perché ci si sente autorizzati a farlo, e nel farlo non si rammenta l’insegnamento evangelico della parabola sulla “prima pietra”. Il valore della “pena”, dunque, non può essere assimilato a quello di Deterrenza, tanto meno a quello di Giustizia. Poco importa se dopo i neonati innocenti la leggendaria “pena” verrà imposta solo agli adulti colpevoli che, in quanto tali, possono pur sempre testimoniare lo strazio insopportabile che il tempo, il luogo e i mezzi di “punizione” comportano. Psamate deve aver sofferto molto per aver abbandonato il figlio a quella orrenda fine, ma non è bastato: è stata ulteriormente “punita” con la sua di morte.
Il concetto di “giusta pena” è, quindi, una emerita scemenza che, nelle mani di chi crede di poter impunemente scagliare la famosa pietra, arriva a infliggere dolore anche nelle forme più estreme della tortura o della morte. La scelta della procurata sofferenza dipende più dal desiderio di una vendetta personale o per conto terzi che dalla stessa gravità del fatto. Ad esempio, che cosa ne sappiamo della mente e dei sentimenti di quella ragazza che, essendo riuscita a nascondere ben due gravidanze al suo fidanzato e alla famiglia, è arrivata a uccidere due sue creature e seppellirle in un terreno poco distante da casa? Che cosa ne sappiamo dei successi o dei fallimenti cui è andata incontro la psichiatria cercando di curare i cittadini affetti dalla malattia della violenza? Perché la violenza è solo una malattia, per cui accade di esercitare il diritto di odiare e torturare, invece di amare e perdonare. Forse, gli psichiatri si sono occupati solo di sapere se il reo ha agito essendo o non essendo in grado di intendere e volere. L’idea che si potesse fare prevenzione non ha neppure sfiorato le loro menti. E come ci si domanda in prefazione a “Il delitto del cervello”, «l’immagine di un uomo adottata dal Diritto, quella cioè di persona libera, razionale, consapevole e padrona delle proprie azioni, viene oggi messa radicalmente in discussione dalla ricerca neuro scientifica?».
Se quello che noi tutti desideriamo è che sia fatta giustizia, dobbiamo chiederci se il carcere sia mai servito allo scopo. La punizione serve solo a nutrire il famelico mostro marino mandato da Apollo per colpire chi ha violato la Legge, con piena soddisfazione della nostra pretesa di vendetta, ma non ha mai pensato di analizzare i motivi che hanno condotto tanti nostri simili in carcere. Siamo tanto disperati da non sapere neppure immaginare luoghi in cui possa essere messa sotto controllo la malattia della violenza e continuiamo a sottoporre degli esseri umani alla tortura del carcere, privandoli del senso della loro stessa dignità personale.
Che genere di conoscenza e di giustizia ci è stata tramandata se oggi si dimostra essere totalmente priva del senso della pietà e del perdono. Non ci accorgiamo che il diritto penale contemporaneo è stato scritto sulla base della antica Legge del taglione, immaginando che un ladro smetta di esercitare la professione non per essere stato aiutato a trovare un lavoro onesto, ma per paura di ciò che accade in carcere. Questo significa credere nella magia, perché la minaccia della retribuzione punitiva non ha mai dissuaso nessuno, giudici o sottoposti a giudizio.
È solo di recente che si ricomincia a parlare, solo a parlare naturalmente, di portare nelle scuole e nei luoghi di reclusione l’educazione sentimentale e la consuetudine al dialogo. Sempre più accade siano pubblicati libri nei quali il tema della Giustizia sembra essere al centro di un grande dibattito: vuol dire che si sta dibattendo troppo, senza concludere un accidente. Perfino il tema della “giustizia riparativa” sembra caduto nel dimenticatoio, perché sono sempre molto forti le voci di chi sostiene che la pena carceraria sia un “diritto” delle vittime. Erano le mie posizioni di quando ero giovane, ma poi sono state fatte a pezzi da Altiero Spinelli, il quale già nel 1949 sulla rivista “Il Ponte” scriveva: «Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale».

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