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NOI DETENUTI, CHE OGNI GIORNO LOTTIAMO PER SENTIRCI PERSONE

13 settembre 2025:

Fabio Falbo, Lo Scrivano di Rebibbia, su l’Unità del 13 settembre 2025

Quando ho letto il Diario di Cella n. 17 scritto da Gianni Alemanno, ho provato una commozione profonda. Non perché mi abbia raccontato, ma perché l’ha fatto con verità, con rispetto, con coraggio, in un sistema che spesso ci riduce a numeri, a etichette, a reati. Gianni ha scelto di raccontare l’uomo, la storia, il cammino, e l’ha fatto dopo aver conosciuto mia moglie Maria, i miei figli Francesco, Denise, Marco Aurelio, mia sorella Isabella e sentito parlare di mio padre Francesco, che a 92 anni continua a vivere con un solo desiderio: rivedermi libero. Li ha incontrati nell’area verde di Rebibbia, durante i colloqui, ha guardato negli occhi la mia famiglia, quella che ha resistito con me in tutti questi anni, fuori dalle mura, giorno dopo giorno.
Nel suo diario, Gianni ha riportato alcune parole che gli ho scritto nella dedica di un mio libro. L’ho chiamato “compagno di pensiero e di resistenza”, perché è così che lo sento. E ho scritto: “Anche chi è innocente può curare una ferita che non ha causato, e trasformare il dolore in consapevolezza”. Queste parole non sono solo mie, sono il frutto di anni di riflessione, di studio, di lotta. Anche se non condividiamo la stessa cella, condividiamo gli altri spazi del carcere, e quello che ci contraddistingue è la battaglia comune che ci fa sentire persone. In carcere noi non siamo il nostro reato. Questa frase, che ho ripetuto a Gianni fin dal primo giorno, è diventata il seme da cui è nato questo diario di cella con Stefano. Perché dietro ogni condanna c’è una persona, una storia, una possibilità. E se il sistema penitenziario non riesce a vederlo, allora dobbiamo gridarlo noi.
La filosofia mi ha salvato e aiutato a sopportare questo dolore. In particolare, Marco Aurelio, imperatore e pensatore stoico, mi ha insegnato che la libertà non è un luogo, ma uno stato dell’anima. “La felicità della tua vita dipende dalla qualità dei tuoi pensieri.” Questa frase mi accompagna ogni giorno. In cella, tra le carte, tra le istanze che scrivo per i miei compagni di sventura, tra le notti in cui il silenzio pesa come pietra, ho scelto di non essere schiavo del rancore, ma artigiano della consapevolezza. Bisogna vivere come se ogni giorno fosse l’ultimo, ma agire come se ogni gesto può cambiare questo carcere collassato. E così ho fatto, ho studiato, mi sono laureato, ho aiutato centinaia di persone detenute a ottenere benefici, ho scritto, ho pensato, ho lottato, non per ottenere qualcosa, ma per non perdere me stesso.
Gianni ha avuto il coraggio di raccontare tutto questo, perché sopra ogni colore politico ci sono i diritti umani. Il duo “Alemanno/Falbo” significa camminare a testa alta tra rischi e insidie presenti in una qualunque istituzione totale, significa un incontro di saperi sulla persona e sulla società per far affiorare l’inatteso e il non detto. Questa resistenza silenziosa che ogni giorno portiamo avanti tra le mura di Rebibbia significa dare voce a chi voce non ha, facendo capire che il problema del carcere non è un problema delle persone carcerate, ma della società libera.
A Gianni va la mia gratitudine più profonda per aver dato valore alla mia storia, per aver riconosciuto il mio impegno, per aver scelto di usare la sua voce per amplificare la mia. E a chi legge queste righe, chiedo solo questo: Non dimenticateci. Non voltatevi dall’altra parte. Lottate con noi perché nei noi ci siete anche voi, lettori, che siete dalla parte dei diritti. Perché ogni storia raccontata è un muro che cade e ogni alleanza vera, come la nostra, è un seme di cambiamento. Un grazie va reso anche a Nessuno tocchi Caino coi laboratori “Spes contra Spem” se le nostre voci rimbombano in tutte quelle coscienze che vogliono riformare la legge e il sistema penale. Noi raccogliamo tutte le informazioni utili per approfondire le conoscenze, per poi elaborare proposte di riforma della esecuzione penale in modo da evitare ii ripetersi di future ingiustizie.
Noi non parliamo della nostra esperienza agli altri, vogliamo solo ricordare quel che succede alle persone detenute in uno Stato che viene definito di diritto, ben consapevole dei trattamenti inumani e degradanti che infligge e che di certo non sono fenomeni eccezionali e sporadici, perché si verificano con estrema frequenza a causa di vere e proprie “mancanze sistemiche”. Coloro che più di ogni altro sono chiamati ad assicurare i diritti alle persone detenute sembrano perdere di vista i propri doveri e si concentrano, invece, alimentandole, sulle tensioni tra sicurezza pubblica e funzione rieducativa della pena. Come scriveva Marco Aurelio: “Ciò che ostacola il cammino diventa il cammino”. E noi, ogni giorno, trasformiamo l’ostacolo in lotta, la pena in pensiero, il dolore in dignità.

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